Parla il cardinale Giorgio Marengo, prefetto apostolico di Ulan Bator: «La visita è un segno di attenzione a una Chiesa di minoranza e a un popolo ricco di cultura»
La visita di Papa Francesco in Mongolia? «Un’occasione straordinaria, un segno di attenzione a una Chiesa di minoranza e di periferia che significa moltissimo e che ci incoraggia». Il cardinale Giorgio Marengo, prefetto apostolico di Ulan Bator, non nasconde l’entusiasmo per il viaggio che dal 31 agosto al 4 settembre porterà il Pontefice tra i 1.500 cristiani del grande Paese dell’Asia centrale. «Qui scherziamo dicendo che tutti i fedeli potrebbero stare nella foto ricordo col Papa», sorride il missionario della Consolata. Alle sue spalle, nel suo ufficio, è incorniciato un pannello con l’incipit della Costituzione del 1992, che sancisce la libertà per i cittadini di professare qualsiasi fede, o nessuna. «È il dato che ha permesso i rapporti diplomatici bilaterali tra Santa Sede e Mongolia e ha aperto le porte, 31 anni fa, all’arrivo dei primi tre missionari cattolici», commenta padre Marengo, nel Paese dal 2003 e diventato l’anno scorso, a 48 anni, il più giovane membro del Collegio cardinalizio.
Questa visita storica, dalle non indifferenti implicazioni geopolitiche visto il collocamento del Paese, stretto tra Russia e Cina, rappresenterà – è la speranza del porporato – «un passo avanti nel cammino delle relazioni tra Chiesa e Stato». Un fronte su cui «la Mongolia costuisce un esempio virtuoso in quest’area del mondo».
Com’è il vostro rapporto con le istituzioni?
«Fin dall’inizio è stato buono e continuiamo ad alimentarlo nel dialogo con le autorità a livello locale e nazionale, soprattutto per spiegare che cosa è la Chiesa cattolica uscendo da alcune semplificazioni: come retaggio del socialismo resta un certo sospetto per la religione. Noi invece vogliamo chiarire che rappresentiamo un partner affidabile per lo Stato, non una minaccia. In questo ci richiamiamo alla bellezza del passato mongolo: già ai tempi dell’impero fondato nel 1206 da Gengis Khan vigeva una certa tolleranza e c’erano cristiani nestoriani. Il francescano Giovanni da Pian del Carpine fu il primo occidentale a mettere piede nella capitale imperiale, Karakorum: un fatto noto nel mondo della cultura, tra storici e archeologi, ma non a livello della conoscenza popolare».
D’altra parte, la Mongolia è lontana dall’immaginario europeo: quali sono gli aspetti di questo popolo che più la colpiscono?
«È colmo di ricchezza umana, spirituale e culturale. Ammiro molto la resilienza dei mongoli, abituati a sopportare tanti estremi, climatici e geografici: hanno interiorizzato questa capacità di resistere agli urti della vita e maturato una grande sapienza, trasmessa per generazioni. E hanno una sensibilità spiccata per il dato religioso».
Come descriverebbe questa spiritualità?
«Plasmata da sciamanesimo e buddhismo, con una serie di simboli, un’arte figurativa, un patrimonio musicale che settant’anni di rigido comunismo non sono riusciti a estirpare. Nemmeno con la violenza: la Mongolia è il Paese buddhista con il più alto numero di martiri, circa quindicimila monaci massacrati durante le terribili purghe socialiste. In generale, per i mongoli la vita non si può interpretare solo sulla base di ciò che è visibile, palpabile e calcolabile».
Qual è invece il volto della Chiesa mongola?
«La sua bellezza è la freschezza nella fede: i cristiani, tutti di prima o seconda generazione, abbracciano la Parola di Dio e cercano genuinamente di vivere alla sua luce. Papa Francesco, parlando ai vescovi dell’Asia centrale, ha usato l’immagine del “germoglio nella steppa”: una Chiesa nascente che a noi missionari richiede cura particolare, profondità, impegno».
Quali sono gli spazi per il dialogo con il buddhismo?
«Sono molti. Già il nostro primo vescovo, monsignor Venceslao Padilla, si era impegnato in questo senso e per noi missionari il dialogo rappresenta uno degli aspetti centrali della nostra presenza. In questi anni, poi, ho sperimentato anche un crescere dei rapporti a livello ufficiale: oggi esiste un gruppo interreligioso che include cattolici, evangelici, mormoni, buddhisti, ma anche musulmani, bahai e un esponente ebreo. Con il buddhismo resta un canale privilegiato, di cui è testimonianza anche la prima visita ufficiale in Vaticano, l’anno scorso, di una rappresentanza proveniente dalla Mongolia».
Su cosa si basa l’annuncio del Vangelo qui?
«Il 70% della attività della Chiesa è costituito da opere sociali, ma attraverso questo prendersi cura dell’altro con lo spirito evangelico, che è quello della gratuità, noi cerchiamo di incarnare il messaggio di Gesù, così che le persone lo possano riconoscere».
Come provate a inserire questo messaggio nella cultura locale?
«Il primo veicolo è la lingua, usata per la celebrazione. Poi viviamo i momenti chiave dell’esistenza, come la nascita e la morte, cercando di integrare elementi della tradizione nella liturgia, con l’aiuto dei fedeli mongoli. Stiamo anche ripensando la musica, con strumenti locali. E gli esempi di apertura alla cultura autoctona sono innumerevoli».