A vent’anni dalla caduta di Saddam Hussein e dopo la persecuzione dell’Isis, i cristiani affrontano una nuova prova: una campagna contro il cardinale costretto a lasciare Baghdad per Erbil. Da dove dice: «Rialziamoci e non perdiamo la speranza»
«Pazienza e speranza. L’Iraq deve risorgere affidandosi alla sua storia, alla sua grande civiltà e alla sua viva memoria». Sono passati ormai vent’anni dall’invasione del Paese che portò alla caduta di Saddam Hussein; ma il patriarca caldeo – il cardinale Louis Raphael Sako – si trova ancora una volta oggi costretto a invitare il suo popolo a rialzarsi. Lo fa nel cuore di una crisi che lo vede questa volta direttamente nel mirino e lo ha portato a metà luglio alla scelta dolorosa e traumatica di trasferire in via temporanea la sede patriarcale dalla capitale Baghdad a Erbil, nel Kurdistan iracheno.
Il gesto che ha condotto alla clamorosa protesta del presule che da vent’anni è voce di una comunità cristiana già falcidiata dalla guerra prima e dalla persecuzione dell’Isis dopo, è stata la scelta adottata il 10 luglio dal capo dello Stato iracheno Abdul Latif Rashid che ha cancellato il decreto 147, un provvedimento emanato dal predecessore Jalal Talabani il 10 luglio 2013, che sanciva la nomina pontificia del cardinale Sako a capo della Chiesa caldea «in Iraq e nel mondo» e per questo lo riconosceva «responsabile dei beni» della maggiore comunità cristiana del Paese. Una decisione sorprendente quella del presidente, frutto della pressione di gruppi di interesse e potenze straniere che stanno di fatto sconfessando una tradizione secolare minando la massima autorità cattolica a poco più di due anni dallo storico viaggio compiuto da Papa Francesco a Baghdad e Mosul.
Obiettivo immediato è il controllo delle proprietà della Chiesa locale, finite nel mirino del sedicente leader cristiano Rayan il Caldeo e delle Brigate Babilonia, milizie filo-iraniane che lo sostengono e che costituiscono una galassia variegata al cui interno vi sono in realtà miliziani anche sciiti e sunniti nel grande caos che continua a ferire l’Iraq. Una minaccia per la pace e per la convivenza per tutta la nazione: non a caso dal ritiro del decreto è andata crescendo di pari passo una «campagna deliberata e umiliante» contro la persona del patriarca a colpi di accuse diffamatorie e attacchi personali.
Da qui la scelta del cardinale Sako di trasferire a Erbil – la città curda dove già dal 2014 si sono riversati i cristiani in fuga da Mosul per la persecuzione dell’Isis – il centro della Chiesa caldea. Un esodo “temporaneo” accompagnato da una serie di richieste non negoziabili avanzate al governo di Baghdad: il reintegro del decreto presidenziale 147, la cacciata dei miliziani delle Brigate Babilonia dalla piana di Ninive, la restrizione del voto per le quote riservate ai cristiani nel Parlamento iracheno ai soli membri della comunità (oggi le elezioni sono aperte a tutta la popolazione, permettendo così ad altre forze di pilotare anche la scelta dei cinque deputati cristiani, previsti come rappresentanza della minoranza). In caso contrario, avverte il cardinale Sako, la Chiesa caldea presenterà un ricorso alla Corte internazionale di giustizia, che si affiancherà a una campagna globale di protesta e al boicottaggio del voto nelle prossime elezioni.
Gesti e richieste forti che il patriarca Sako sta accompagnando con un invito ai caldei a non perdere la speranza anche in questa nuova tribolazione, che non riguarda solo la sua persona ma (ancora una volta) il futuro della comunità cristiana irachena. «La speranza – spiega il cardinale Sako – deve rimanere viva in noi e non scomparire», perché «il caos non può continuare per sempre a dispetto dell’integrità umana e dei valori nazionali, morali e religiosi».
La decisione dei vertici iracheni ha privato il patriarca dell’immunità, del diritto di rappresentare i fedeli e di amministrarne il patrimonio. Secondo il quotidiano arabo-londinese al-Arab, Rayan il Caldeo e le sue Brigate puntano a inserire la questione cristiana nell’agenda politica mettendola «al servizio delle milizie che controllano l’Iraq, dietro le quali c’è l’Iran». Sorte nel 2014 col nome di Forze di mobilitazione popolare, queste milizie derivano da un nucleo primario di sette gruppi armati già esistenti ai tempi dell’occupazione americana del 2003. Hanno assunto un ruolo di punta tra il 2014 e il 2017 quando hanno combattuto contro lo Stato islamico; sarebbero poi dovute diventare un braccio armato dell’esercito grazie a una riorganizzazione decisa dall’allora primo ministro Haider al-Abadi. Di fatto oggi sono sempre più frammentate e in lotta per il potere.
Finanziate dall’Iran, quelle principali prendono i nomi di Kataib Hezbollah, Asaib Ahl al-Haqq e Haraka Hezbollah al-Nujaba, che dicono di formare la “resistenza” (in arabo: muqawama) contro gli Stati Uniti e le forze straniere che – sostengono – avrebbero mire sulla nazione. Dalla metà del 2019 (in particolare dopo l’assassinio da parte degli Stati Uniti del generale iraniano Qassem Suleimani e del comandante iracheno delle Brigate Badr, Abu Mahdi al-Muhandis) in Iraq sono stati registrati almeno 500 attacchi contro obiettivi statunitensi, turchi (Ankara è il principale avversario di Teheran per i giacimenti di gas e petrolio nel Kurdistan) o contro attività considerate non islamiche, soprattutto a Baghdad. Tra le milizie che si dicono cristiane la più nota è – appunto – quella delle Brigate Babilonia, accusate in passato di corruzione e di essersi illegalmente impossessate di proprietà e terreni caldei e assiri nella piana di Ninive.
Secondo analisti e studiosi questa grave situazione è conseguenza delle successive esclusioni di gruppi etnici e religiosi dal sistema politico seguito alla caduta di Saddam Hussein, con una progressiva affermazione del settarismo contro cui si batte con forza il cardinale Sako, che al contrario auspica un Paese fondato sul riconoscimento della cittadinanza con pari diritti per tutti. Anche Saad Salloum, intellettuale musulmano e professore associato di Scienze politiche all’università di al-Mustansiriyya a Baghdad, osserva con attenzione – e preoccupazione – la grave crisi in atto. «I primi segnali – avverte l’esperto e presidente della Fondazione Masarat, in prima fila nella lotta per il dialogo, la libertà e i diritti – erano emersi già nel 2017 con la progressiva affermazione di gruppi e milizie nella lotta contro l’Isis. Le divisioni interne esistono da tempo, ma si sono inasprite con la formazione di fazioni armate in seguito all’ascesa jihadista nella piana di Ninive, area storicamente a maggioranza cristiana».
Saad Salloum accosta il ruolo del patriarca a quello svolto dall’ayatollah Ali al-Sistani nel mondo musulmano sciita iracheno: la «figura più alta in grado» che, pur tenendosi «distante da questioni politiche», non manca di intervenire «davanti a minacce all’identità del Paese, dei suoi valori, del sistema politico» pronunciando fatwa.
«Il patriarca è la voce dei cristiani in Iraq – afferma – e si batte contro quanti ne minacciano identità, futuro e ruolo». Per Salloum oggi sia il cardinale Sako sia al-Sistani «cercano di difendere i diritti delle persone. Il patriarca rappresenta tutti i cristiani, ma quando parla lo fa a nome di tutto il popolo iracheno rivendicando di non essere minoranza, ma cittadini con eguali diritti».
Una comunità a rischio di estinzione
Secondo la tradizione, la presenza dei cristiani in Iraq risale ai discepoli di san Tommaso: Taddeo e Mar Mari. La comunità, formata in maggioranza dai cattolici caldei e dalla Chiesa assira d’Oriente, è concentrata nella piana di Ninive (nei dintorni di Mosul), con presenze a Baghdad, Bassora, Kirkuk e a Erbil, nel Kurdistan iracheno. Tuttavia, se nel 1947 i cristiani costituivano il 12% della popolazione, già nel 2003 erano il 6% e dopo l’invasione degli Stati Uniti il loro numero ha continuato a diminuire, in seguito a una scia di attacchi violenti. L’avanzata dell’Isis nel 2014, poi, ha inferto un ulteriore duro colpo alla comunità, che oggi conterebbe a malapena 250.000 persone, meno dell’1% della popolazione.