Nella città irachena, dove i cristiani e le altre minoranze subirono le violenze dell’Isis, è stata riaperta al culto nostra Signora dell’Ora, profanata dai jihadisti. «Segno che la vita è più forte della morte», dice il domenicano padre Olivier Poquillon
Dare una speranza nuova a un popolo sofferente che ha patito la guerra, le violenze confessionali, il dominio dello Stato islamico con la sua ideologia di terrore e morte. E ricostruire il tessuto sociale insieme alle mura di quella che un tempo era la capitale economica e commerciale del Nord dell’Iraq, dove viveva una comunità cristiana di circa 250 mila persone che si è andata prosciugando nel tempo.
È la missione dei domenicani a Mosul, come racconta padre Olivier Poquillon, che dal 2019 è responsabile della ricostruzione di uno dei più importanti e significativi luoghi di culto della metropoli: la chiesa (e santuario) di Nostra Signora dell’Ora (al-Saa’a), nel cuore della città vecchia. La fiducia fra comunità, fra cristiani e musulmani, «non si può stabilire con una legge o per decreto»: i problemi vanno «affrontati e risolti nelle difficoltà», come ha ricordato Papa Francesco nel suo viaggio in Iraq nel 2021, partendo dalla «comune appartenenza» a Ur e ad Abramo, padre dei credenti.
«La situazione a Mosul – racconta il religioso – si è evoluta: nel 2017, alla liberazione dall’Isis, circa l’80% della città si presentava distrutta, non vi erano più cristiani, curdi o yazidi, fatta eccezione per quanti erano ridotti in schiavitù». Oggi, prosegue, «anche se a livello demografico la realtà è cambiata di poco rispetto agli ultimi 20 anni, non vi sono più combattimenti e la ricostruzione avanza spedita». Negli ultimi cinque anni «molto si è fatto, non solo a livello di monumenti o edifici simbolo – come il convento dei domenicani e la grande moschea di al-Nouri – ma pure nel ripristino di servizi quali acqua, elettricità, rete fognaria e per una convivenza comune a livello di popolazione. Da un quadro di distruzione, con crateri e rovine dappertutto – sottolinea – ora possiamo beneficiare di strade e abitazioni».
Padre Olivier Poquillon è nato a Parigi nel 1966 e dopo aver compiuto studi in diritto internazionale ha iniziato il noviziato presso i domenicani nel 1994, per poi essere ordinato sacerdote nel 2001. Tra gli incarichi ricoperti quello di esperto della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa. Ha anche presieduto la Commissione francofona di Giustizia e pace dell’Ordine.
Dopo aver insegnato all’università di Mosul è stato delegato permanente dell’Ordine all’Onu (dal 2008 al 2013), priore del convento domenicano di Strasburgo, parroco latino per stranieri nel Nord Iraq e responsabile dei lavori – finanziati dagli Emirati Arabi Uniti e realizzati dall’Unesco – alla chiesa di Nostra Signora dell’Ora. Un edificio risalente alla seconda metà del XIX secolo frutto della missione domenicana in Mesopotamia, che portò nel 1880 alla costruzione della prima torre campanaria in una chiesa, col contributo dell’allora imperatrice francese Eugenia.
Quella di al-Saa’a è una chiesa «molto importante – racconta padre Poquillon – perché ha accolto il primo orologio della Mesopotamia, formato da quattro quadranti come i punti cardinali per mostrare che ovunque lo si guardi, l’ora è uguale per tutti». Esso «scandisce il tempo di Dio per tutti, cristiani e musulmani, e ciascuno di noi dovrà rendere conto di come lo ha impiegato», afferma il sacerdote, per questo racchiude «una dimensione religiosa e spirituale, sociale e culturale». Inoltre è motivo di orgoglio e vanto, perché Mosul è stata la prima città di tutta la regione a disporre di un meccanismo ad alta tecnologia. Nel novero dei lavori di restauro, aggiunge padre Poquillon, «lo scorso anno abbiamo riposizionato le campane e le abbiamo fatte risuonare al mattino, a mezzogiorno, la sera… in questo modo abbiamo potuto ricominciare a recitare anche l’Angelus».
Dalla sconfitta militare dell’Isis, che ha portato alla liberazione di Mosul e al ritorno di una piccola parte dell’originaria comunità cristiana, i sacerdoti hanno già celebrato tre volte la Messa all’interno della chiesa. «La prima è stata una funzione di espiazione – racconta il domenicano, il cui ordine molto ha fatto nella conservazione del patrimonio culturale, cristiano e non solo, della città sotto l’Isis – perché l’edificio sacro è stato usato come tribunale e luogo di violenza dai jihadisti, con torture e assassini». Gli operai cristiani e musulmani che hanno lavorato alla sua ricostruzione «hanno voluto prendere parte alla Messa, presieduta dal provinciale dei domenicani, per ricordare quanti hanno sofferto e sono morti». La seconda celebrazione si è tenuta in occasione della visita del cardinale Kurt Koch, prefetto del dicastero per la Promozione dell’unità dei cristiani, mentre la terza è stata con un gruppo di giovani della comunità domenicana del Kurdistan. Fra quanti hanno partecipato, «vi erano anche persone originarie di Mosul e tornate in città per la prima volta in 20 anni».
Nel periodo natalizio la chiesa tornerà ad accogliere i fedeli in particolare il primo gennaio, Giornata mondiale della pace, in occasione della visita del Maestro dell’Ordine con una funzione solenne per la famiglia domenicana, alla presenza di frati e suore. I primi religiosi giunsero nel XIII secolo, all’epoca della fondazione, e a Mosul stabilirono il primo convento, per poi subire il martirio. Cinque secoli più tardi Benedetto XIV rilanciò la missione dando vita a nuove comunità, fra cui quella a Qaraqosh, nella piana di Ninive, che nell’estate 2014 è dovuta fuggire in seguito all’avanzata jihadista.
Ieri Mosul, oggi Gerusalemme (dove padre Poquillon ricopre da poco il ruolo di direttore della Scuola biblica), un filo rosso di sangue e violenza collega le diverse anime del Medio Oriente: «La guerra è sempre una sconfitta per l’umanità – conclude – ma come insegna Mosul, che ha toccato il fondo per poi rinascere, la vita è più forte della morte».