Nel Paese oggi nell’occhio del ciclone per gli attacchi Houthi nel Mar Rosso, la ong fondata da Asia Al-Mashreqi ha aiutato due milioni di rifugiati di guerra. «Ma il mondo ha lasciato solo il mio popolo», dice la vincitrice del Premio Nansen dell’Onu. Che è la protagonista anche della nuova puntata di Finis Terrae
La vita ha insegnato ad Asia Al-Mashreqi che bisogna lottare per i propri sogni. Anche se si è poveri, molto giovani e si aspira a un futuro diverso da quello che gli altri hanno immaginato per te. Proprio come lei, nata 46 anni fa alla periferia di Sana’a, capitale dello Yemen, in una famiglia umile che non accettava il suo desiderio di continuare gli studi oltre le elementari. «I miei parenti erano convinti che i maschi avessero il diritto di ricevere un’istruzione mentre le ragazze dovessero restare in casa – racconta -: volevano farmi sposare con uno dei miei cugini».
Lei si impuntò e le cose andarono diversamente, tanto che Al-Mashreqi è appena stata premiata dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati per il suo impegno alla guida della Sustainable Development Foundation, la ong che ha creato nel 2015 per far fronte a una delle più gravi – e dimenticate – crisi umanitarie al mondo. Da quando il Paese della Penisola arabica vive sotto il fuoco incrociato delle forze governative e dei ribelli Houthi, finiti in queste settimane nell’obiettivo di una coalizione internazionale per i loro attacchi a navi cargo nel Mar Rosso, 4 milioni e mezzo di yemeniti sono stati costretti ad abbandonare le proprie case e tuttora, nonostante il fragile cessate il fuoco dell’aprile 2022, l’80% della popolazione vive grazie all’assistenza umanitaria. Gli aiuti al Paese, tuttavia, sono stati tagliati del 62% in cinque anni, mentre a dicembre il Programma alimentare mondiale ha sospeso la distribuzione di cibo nelle aree controllate dagli Houthi per il calo dei finanziamenti e i disaccordi con il gruppo.
«Il mio popolo è stato lasciato solo dalla comunità internazionale, ancor più dopo che altre emergenze hanno catalizzato l’attenzione, dall’Ucraina a Israele e Palestina», denuncia l’attivista, che si è aggiudicata il premio Nansen per il Medio Oriente grazie al supporto garantito in questi anni a oltre due milioni di persone, in particolare sfollati interni e rifugiati.
Proprio il conflitto a Gaza ha riportato sotto i riflettori i ribelli sciiti yemeniti, sostenuti dall’Iran, che hanno ripetutamente preso di mira navi nel Mar Rosso come ritorsione per i bombardamenti israeliani sulla Striscia. Ma se l’escalation ha provocato l’intervento della comunità internazionale, con gli attacchi di una coalizione a guida Statunitense a varie postazioni militari Houthi, la popolazione dello Yemen non sta beneficiando del suo ritorno sulle mappe internazionali. «Al contrario: la preoccupazione per Gaza lascia ancora una volta indietro la mia gente».
Asia, come si vive oggi in Yemen?
«Le persone sono allo stremo: non hanno cibo, acqua, cure mediche. La gente fatica a mangiare una volta al giorno. A soffrire di più sono gli anziani, i disabili, i bambini, che non possono andare a scuola e sono privati di un contesto sicuro in cui vivere serenamente. A maggior ragione le femmine, che oltre a tassi più alti di abbandono scolastico rischiano abusi e matrimoni precoci. Molte madri muoiono per mancanza di accesso alle cure sanitarie durante la gravidanza o al momento del parto. In generale, le donne sono in una situazione molto critica per la vulnerabilità sociale ma anche economica: ecco perché, in tutte le nostre iniziative, puntiamo sul loro empowerment, che si trasforma poi in uno strumento strategico per alleviare la povertà e promuovere lo sviluppo, oltre che per combattere tutte le forme di violenza».
Lei com’è riuscita a emanciparsi da un contesto di arretratezza fino a diventare un punto di riferimento per le sue connazionali?
«Non è stato facile. Ho dovuto affrontare due ostacoli principali: la pressione sociale e la povertà. Noi eravamo otto fratelli e per mio padre era un problema pagare l’istruzione per tutti. Ecco perché fin da bambina mi sono inventata piccoli lavoretti per pagarmi il materiale scolastico e dare un contributo a casa: vendevo caramelle agli altri ragazzini durante l’intervallo, più tardi ho cominciato a lavorare come sarta. Ma quando arrivai alle medie, in famiglia mi dissero: “Ora basta”. Ero disperata, finché qualcuno mi parlò di un istituto locale che supportava la scolarizzazione delle ragazze garantendo cibo e un piccolo contributo economico alle famiglie: così riuscii a convincere i miei e studiai fino alle superiori».
E diventò maestra: perché quello fu un punto di svolta?
«Perché i miei genitori si resero conto che potevo fare qualcosa di importante. Mio padre era molto orgoglioso di me. Per lui la decisione più difficile fu lasciarmi andare all’università, perché i parenti e l’intera comunità rifiutavano quest’idea, c’era una sorta di stigma sociale visto che avrei frequentato un contesto misto. Alla fine, lui decise di stare dalla mia parte e io diventai la prima ragazza dell’area a laurearmi. Fu un passo molto importante non solo per me, perché spianò la strada ad altre donne che poi hanno fatto la mia stessa scelta. Tra queste anche le allieve della scuola superiore di Sana’a di cui fui nominata preside: 4.000 studentesse, che si sentivano molto vicine a me per la mia giovane età e per la mia provenienza sociale umile. Eravamo unite dall’ambizione e dalla speranza di ottenere più diritti, libertà, partecipazione politica».
In quegli anni portò avanti una campagna nelle scuole per promuovere la salute femminile, ottenne incarichi per il ministero dell’Istruzione, si impegnò in progetti di sviluppo e sostegno ai rifugiati. Poi arrivò la guerra…
«Fu uno shock. Anche prima del conflitto la vita non era facile, ma nel 2015 tutto collassò: all’improvviso perdemmo ogni cosa, mancavano cibo, acqua, gas… Vivevamo al buio e andavamo a dormire senza sapere se ci saremmo svegliati il giorno dopo. Rimasi due mesi in uno stato di depressione, piangendo tutto il tempo, finché, insieme a tre delle mie studentesse e a una collega, decidemmo che dovevamo fare qualcosa. Vendemmo i nostri gioielli di famiglia e, con il ricavato usato come capitale iniziale, creammo la Sustainable Development Foundation. Il nostro primo intervento fu a favore di duecento sfollati interni che da Haradh, nel Nord-ovest del Paese, erano dovuti fuggire a Hudaydah, sul Mar Rosso».
Da allora, la vostra azione si è allargata sempre di più.
«In questi anni siamo riusciti a raggiungere oltre due milioni di beneficiari, rifugiati e yemeniti in condizioni di vulnerabilità, e da uno staff di cinque amiche, sostenute dalle nostre famiglie, siamo passati a 600 tra dipendenti e volontari, il che fa di noi la fondazione più grande nel Paese. Operiamo sia nel Sud che nel Nord, nelle aree controllate dagli Houthi, con programmi di sicurezza alimentare, accesso alla sanità e all’istruzione, all’alloggio e ai mezzi di sussistenza. In collaborazione con le agenzie Onu, altre ong e le autorità abbiamo tra l’altro sostenuto 50 centri sanitari, aperto a Sana’a uno spazio che ha accolto quasi 12.000 bambini rifugiati e reso possibile l’avvio di 6.000 piccole imprese, gestite da giovani e da donne, a cui insegniamo competenze strategiche di marketing digitale e imprenditorialità».
Lei sostiene che per migliorare la vita delle donne si debba partire dall’interno: in che senso?
«La società yemenita non è un ostacolo. L’80% delle nostre donne vivono nelle campagne e sono quelle che lavorano negli orti e hanno la responsabilità della gestione familiare. Il problema sono certe convinzioni tradizionali sui ruoli di genere, promosse in particolare da alcuni gruppi religiosi che non hanno interesse che le yemenite escano, imparino e abbiano autorità nella comunità. Ecco perché, insieme ad altre reti femminili, lavoriamo per accrescere la consapevolezza, garantire supporto legale, assicurare l’autonomia anche economica delle donne. E offrire loro modelli di successo. Se alle nostre ragazze, e ai nostri giovani, fossero garantite sicurezza e competenze, potrebbero fare miracoli».