Padre Ibrahim Faltas, padre Gabriel Romanelli e, dall’Egitto, padre Rafic Greice lanciano appelli per scongiurare l’incursione israeliana a Rafah, che rischia di provocare un «dramma finale» per la Striscia di Gaza e la sua popolazione
(AsiaNews) – Prima a nord, Gaza, poi Khan Younis e oggi Rafah. L’attenzione, e la preoccupazione della comunità internazionale, è oggi concentrata nell’area più a sud della Striscia. Nell’enclave palestinese il governo israeliano di estrema destra da oltre quattro mesi ha lanciato una guerra sanguinosa (oltre 28 mila le vittime, in larga maggiorana civili fra cui donne e bambini), in risposta all’attacco di Hamas del 7 ottobre che ha causato 1.200 morti in Israele. Laddove sorge la porta meridionale di ingresso nella Striscia, al confine con l’Egitto, sono ammassati fino a 1,4 milioni di rifugiati che hanno abbandonato le loro case in seguito all’avanzata dei militari dello Stato ebraico. Ora, però, non è rimasta alcuna via di fuga e l’annunciata offensiva di terra, preceduta nei giorni scorsi da pesanti bombardamenti dei caccia con la stella di David che hanno lambito i campi profughi e distrutto una moschea, potrebbe avere conseguenze “disastrose” secondo l’Onu. E intanto il diritto umanitario continua a essere calpestato.
L’Egitto congela Camp David?
Spostandosi sempre più a sud, il fronte della guerra di Israele ad Hamas rischia di coinvolgere anche l’Egitto, che osserva da vicino quanto sta avvenendo a pochi metri dal proprio territorio. Il governo del Cairo rilancia gli sforzi per un cessate il fuoco e il raggiungimento di una «soluzione radicale» alla crisi, esplorando ogni via diplomatica – per ora – nel tentativo di avviare «seri negoziati di pace». Il Paese dei faraoni ha più volte ribadito in queste ore la propria opposizione a una operazione di terra, dalle conseguenze più che mai incerte e che rischia di avviare un esodo di massa di disperati che non hanno più altro luogo per sfuggire alle bombe. Colpire Rafah e, in parallelo, continuare a impedire l’ingresso di aiuti nella Striscia secondo il Cairo rischia di peggiorare una catastrofe umanitaria già in atto, per questo non esclude la possibilità di sospendere i trattati di pace di Camp David con Israele. E aprire un ulteriore fronte di crisi internazionale in un’area mediorientale in cui si moltiplicano i focolai di guerra e di tensione.
«L’escalation di Rafah – spiega ad AsiaNews padre Rafic Greiche, già presidente del Comitato dei media del Consiglio delle Chiese d’Egitto e portavoce della Chiesa cattolica egiziana – è molto pericolosa. Israele vuole prendere i confini, bombarda anche il muro che separa la Striscia di Gaza dall’Egitto e che permette il transito dei palestinesi verso il Sinai». Per il sacerdote quanto sta avvenendo negli ultimi giorni «rappresenta una grave escalation, perché gli israeliani si stanno imbarcando in un’avventura davvero molto, molto grande. Spero non accada nulla di irreparabile – avverte – e, soprattutto, che non ci sia una nuova guerra fra Israele ed Egitto perché il rischio è reale e concreto».
Vi è poi un secondo elemento, prosegue, che è l’intenso lavoro diplomatico che sta svolgendo il Cairo da dietro le quinte e coinvolge Israele, Hamas, Stati Uniti e il Qatar «per arrivare a un cessate il fuoco» e che l’escalation ai confini può compromettere. «Se Israele volesse davvero la pace – afferma padre Rafic – non avrebbe senso alimentare la guerra al sud, a Rafah, ai confini. Questa è davvero un’avventura dai risultati imprevedibili anche perché sebbene l’esercito egiziano non sia forte e numeroso come quello di Israele, il pericolo è grande per tutti».
Rafah: Israele blocca gli aiuti
«Noi egiziani – racconta il sacerdote – vogliamo la pace», mentre oltre-frontiera lo Stato ebraico sembra disposto a procedere incurante delle conseguenze, anche perché «chi pagherà il prezzo non sarà Hamas, ma gli abitanti di Gaza: anziani, donne, bambini che muoiono ogni giorno» e già oggi i risultati sono visibili anche in territorio egiziano. «L’Egitto sta cercando di aiutare le persone nella Striscia, prova a fare in modo che beni e aiuti entrino a Rafah – racconta padre Rafic – ma gli israeliani lo impediscono mettendo ultra-ortodossi ai confini che bloccano il passaggio dei convogli umanitari». Dal Paese dei faraoni l’opinione comune è che «gli israeliani stiano cercando di provocare un esodo di massa della popolazione verso l’Egitto», sottolinea padre Rafic, evocando la (temuta) seconda Nakba già ricordata a più riprese in questi ultimi giorni da analisti e operatori umanitari sul campo. «Israele – conclude – sembra voler svuotare la Striscia per poi poterla occupare, questa sembra essere l’impressione di noi egiziani. Anche per questo il governo sta minacciando di congelare tutti gli Accordi di Camp David (che hanno portato al trattato di pace israelo-egiziano del 1979 – ndr) e questo è molto pericoloso».
Preoccupazioni, quelle del sacerdote egiziano, condivise sul fronte israelo-palestinese da padre Ibrahim Faltas, vicario della Custodia di Terra Santa a Gerusalemme. «Una situazione che si fa sempre più grave – racconta – come emerge dal numero elevatissimo dei morti nelle ultime ore. Dalle vittime al milione e 400 mila profughi ammassati, sino alla minaccia di congelare Camp David – prosegue il religioso – siamo di fronte a una pericolosa escalation». La Striscia rischia di trasformarsi «in un cimitero a cielo aperto, per questo come Chiesa di Terra Santa rinnoviamo l’appello a un cessate il fuoco, unica via per la pace. No alla violenza, no alla guerra e ritorno ai negoziati dopo 130 giorni di conflitto e un numero fra morti e feriti che ha superato i 100 mila». E in questa prospettiva, una invasione di terra a Rafah “sarebbe un disastro, il dramma finale per questo oggi più che mai – conclude padre Ibrahim – la comunità internazionale è chiamata a intervenire».
Un popolo in trappola
Le testimonianze che giungono da Rafah sono sempre più drammatiche, con immagini di famiglie che dormono per strada o, le più “fortunate” in tende al gelo, tutti accumunati dalla ricerca vana di cibo, acqua, medicinali o coperte. Ai residenti originari si è andato ad aggiungere l’esodo massiccio e progressivo da nord, per una densità abitativa oggi pari a 22 mila abitanti per km quadrato, un numero insostenibile già nel breve periodo. Tuttavia anche a nord, a Gaza, la realtà resta di estrema emergenza come sottolinea ad AsiaNews il parroco della Sacra Famiglia padre Gabriel Romanelli, dall’inizio del conflitto impossibilitato e rientrare fra la sua gente per la chiusura dei confini imposta da Israele. E che dall’esterno, in collegamento costante con Papa Francesco «che sento quasi ogni giorno» e col patriarca latino di Gerusalemme cardinale Pierbattista Pizzaballa cerca di coordinare i (pochi) aiuti e mostrare il volto della solidarietà e della vicinanza a un popolo in trappola. «I cristiani di Gaza – sottolinea il sacerdote argentino del Verbo Incarnato – vivono una condizione di continua ansia e preoccupazione. Da un lato sperano in una tregua, che arrivi presto e permanente, nonostante la realtà dall’altro sia molto grave».
L’attacco a Rafah, prosegue padre Romanelli, «fa molta paura, perché è l’unico contatto rimasto con il mondo esteriore, e la prigione a cielo aperto si è ormai trasformata in una gabbia. In parrocchia ospitiamo 600 persone, nella chiesa greco-ortodossa ve ne sono altre 200, mentre 200 cristiani si trovano al sud dove si erano recate nelle scorse settimane con la prospettiva di uscire, qualcuno emigrare in Australia, ma sono rimasti bloccati anche loro. Nessuno può uscire e tutti, da Gaza a Khan Younis, fino a Rafah sono stati bombardati», ma quello che più preoccupa ora è «come fare a gestire 1 milione e 400 mila persone» – secondo alcuni gli sfollati sono fino a 1,8 milioni – che si trovano ammassate alla frontiera. Il parroco di Gaza sottolinea infine le drammatiche condizioni umanitarie della popolazione, in cui si muore come avvenuto per Hani Abu Daoud anche per malattie facilmente curabili all’esterno. «Aveva quattro figli, l’ultimo di pochi mesi – conclude – ma è morto da solo. Questa tragedia va fermata, perché ogni giorno, ogni ora significano altre vittime, altri feriti in una tragedia che si fa sempre più grande».