IL COMMENTO:
Noi missionari e il dibattito su stepchild adoption e utero in affitto: se non so tutelare la vita là dove nasce, come potrò occuparmi dell’ambiente o della pace?
L’attuale dibattito parlamentare sulle unioni civili e, in particolare, sulla possibilità dell’adozione per le coppie omosessuali, la stepchild adoption, che sembra svolgersi in un clima di contrapposizione ideologica vecchio stile, esige invece un pensiero e un metodo nuovi. Il problema non riguarda solo il diritto all’adozione per alcuni, ma anche la conseguente necessità di gravidanze su commissione, e quindi di uteri in affitto. Riguarda, inoltre, il diritto alla libertà per molte donne, costrette invece a fare del proprio grembo un luogo di mercato. E riguarderà prima o poi anche il diritto per ogni bambino/a ad avere un papà ed una mamma con i quali crescere. Sembra invece che questi ultimi diritti passino in secondo piano, siano di serie B rispetto al diritto di serie A, quello di avere figli, sempre, comunque e ad ogni costo. Anche là dove la natura stessa non saprebbe come fare.
Emblematica è la vicenda consumatasi in Nepal e venuta alla luce dopo il terremoto dello scorso anno. Molte coppie di omosessuali avevano cercato maternità surrogate convenienti nel Paese asiatico e nemmeno il sisma, pur devastante, era riuscito a far tremare questo tipo di business, al punto che a Kathmandu, lo scorso settembre, un’ordinanza delle autorità aveva cercato di interrompere la pratica dell’utero in affitto che il terremoto aveva paradossalmente incrementato per gli scenari di povertà e dolore che aveva contribuito a creare. Le cifre (attuali) della maternità surrogata tra est e ovest del mondo sono note e spiegano perché il Nepal conviene più che la California. Si paga infatti circa 90.000 euro se made in Usa; 12.000 se made in India; 4000/6000 se made in Nepal. Non vorrei solo denunciare la gravità di una simile pratica, perché è già tutta nel moltiplicarsi di cliniche che offrono questo “servizio”, e nelle cifre che prezzano la “merce”, naturalmente a scalare verso i Paesi poveri.
Vorrei piuttosto fermarmi a riflettere e a pensare a possibili vie d’uscita. Papa Francesco, nel suo viaggio di ritorno dall’America Latina, lo scorso 13 luglio 2015, raccomandava ai giornalisti presenti sull’aereo l’importanza di «un’ermeneutica totale», per non essere frainteso. Pare infatti che le parole non bastino a papa Francesco per esprimere tutto quello che vede e che sente. E in questo scarto fra il suo “tutto” e il poco delle parole e delle grammatiche di questo mondo, s’infilano le interpretazioni spesso parziali dei media che riducono, strumentalizzano, o non comprendono le visioni ampie e totali del Papa. Il suo metodo è tra le righe della sua ultima enciclica Laudato Si’ quando riafferma che tutto è creato e tutto è connesso. Per questo – scrive papa Francesco al n. 120 – «non è neppure compatibile la difesa della natura con la giustificazione dell’aborto». Che centra l’ecologia, la preoccupazione per la terra, con l’aborto? O che senso può avere quel che già Madre Teresa, capace della stessa ermeneutica totale, segnalava quando metteva in relazione la ricerca della pace mondiale con il diritto all’aborto? È presto detto: se nemmeno il grembo di una madre è più luogo sicuro, come potrà esserlo il tuo Paese? Se non v’è pace e rispetto lì dentro, se arrivo a mettere le mani e compromettere la vita anche là dove la si concepisce, come potrò garantire la tanto idolatrata sicurezza fuori?
Ecco l’ermeneutica totale applicata: se non so tutelare la vita là dove nasce, come potrò occuparmi di forme di vita minori nelle profondità degli oceani? O come potrò occuparmi della pace in Siria o in Iraq, dove ormai da tempo troppi padroni si contendono il suolo e il sottosuolo? E ancora, se il grembo di una donna nepalese diventa per nove mesi proprietà di una coppia committente, e si arriverà dopo il parto a sottrarle il frutto del suo grembo, come si potrà proteggere una qualsiasi specie animale senza che sia commissionata, presa, venduta, o scartata, per soddisfare il “legittimo diritto” al benessere di chicchessia (ricco)?
È vero, la tecnica lo consente, la legge pure, ma non c’è forse, e sempre più, un male che si riveste di bene-essere? Una mimesi del male che, per diritto, per sicurezza, per non rimanere indietro rispetto agli altri Paesi europei, si maschera di bene e devasta corpi, cuori e coscienze? È strano che il grembo di una donna diventi a seconda delle ideologie e dei tempi storici, sempre e comunque campo di battaglia, luogo per dare la morte, nel diritto all’aborto, o luogo per comprare la vita, nel diritto ad avere figli a tutti i costi. Troppi padroni anche su quel “campo”. A noi pare invece che l’ecologia integrale di papa Francesco suggerisca un pensiero e un metodo diversi e ci metta in guardia contro la più moderna delle ignoranze: quella delle conoscenze frammentarie e isolate. Dei diritti frammentari e isolati. Delle visioni solo tecniche, solo personali, solo a video, ma lontane dai volti di donne, madri, e cuccioli di ogni specie.
Anche e soprattutto in queste settimane nell’affrontare il dibattito parlamentare sul ddl Cirinnà ci vorrebbe un simile metodo integrale perché quel che sembra solo un legittimo diritto, quello di avere figli, anche nel caso di coppie omosessuali (la stepchild adoption), può trasformarsi nell’uso indebito di un altro essere umano, che viene messo a tacere con il denaro. Un’ermeneutica totale, invece, impone di considerare tutti i fattori in gioco in base ai quali sarebbe giusto porre qualche buon limite.
Una simile ermeneutica totale scorre nelle vene anche di noi missionari che da anni viviamo e operiamo dove, se anche i costi di una maternità surrogata sono bassi, la vita non ha prezzo.