Persone senza nome, uomini e donne ai margini della società, o migranti naufragati nel Mediterraneo. Da anni la dottoressa Cristina Cattaneo e il Labanof di Milano provano a restituirgli un’identità. E con essa una dignità. È quanto racconta anche il film “Sconosciuti puri” in uscita il 14 marzo
Senzatetto, adolescenti in fuga, prostitute e, negli ultimi anni, soprattutto migranti naufragati nel Mar Mediterraneo. Persone senza nome che ogni giorno arrivano nel Laboratorio di antropologia e odontologia forense dell’Università Statale (Labanof) guidato da Cristina Cattaneo. Che prova a restituirgli un’identità e, con essa, una dignità di persone. È quanto racconta il documentario “Sconosciuti puri“, di Valentina Cicogna e Mattia Colombo, in uscita nelle sale italiane il 14 marzo. Il film ci immerge non solo nel lavoro, ma anche nella lotta politica della professoressa Cattaneo per spingere i Paesi dell’Unione Europea a collaborare per sistematizzare l’identificazione di ogni persona. Film potentissimo, fa emergere con forza quanto sia importante restituire un’identità ai corpi sconosciuti, che portano ancora i segni di una storia vera. Ne abbiamo parlato con uno dei due registi.
Mattia Colombo, come è nata l’idea di “Sconosciuti puri”?
«Valentina Cicogna con cui l’abbiamo realizzata, alcuni anni fa, stava scrivendo un film di finzione con un altro regista e doveva elaborare una scena di autopsia. Per questo è andata all’obitorio a Milano dove ha conosciuto Cristina Cattaneo, che le ha dato i libri che aveva scritto: tra questi ce n’era uno dedicato proprio ai morti senza nome. Abbiamo iniziato a parlarne in maniera un po’ vaga. Poi il suo compagno ha avuto la grande intuizione: “Qui c’è un film!”».
Avete pensato subito di fare un film su Cristina Cattaneo?
«No, per niente. All’inizio eravamo attratti dall’idea di fare un film che facesse riflettere sul concetto d’identità e anche dal laboratorio in sé, quindi non solo dal personaggio della Cattaneo, ma dalla sinergia di tutte le persone che vi lavorano. Un’altra cosa che ci stimolava dal punto di vista stilistico era lavorare sui frammenti. Trovavamo che il lavoro di Cristina e del suo team era un po’ simile a quello che facciamo noi come documentaristi, cioè partire da piccoli frammenti, da indizi, e grazie a questi ricostruire la storia di una persona. Poi conoscendo Cristina Cattaneo sempre di più, anche umanamente, la telecamera è andata in maniera molto naturale su di lei, perché tutto ruotava attorno a lei. In generale è così che faccio con tutti i miei film, parto con un’idea ed esploro un mondo, cercando di essere molto aperto e di vedere cosa mi restituisce, dove mi porta».
Nel film, però, non c’è solo lei come personaggio, ma anche la sua lotta politica…
«Cristina sta cercando di far capire anche al mondo politico che dare un’identità a quei corpi è fondamentale. Lei incarna questa battaglia ed è stato chiaro a un certo punto della produzione che il film avrebbe dovuto raccontarla. Anche per questo è molto difficile separare Cristina dalla sua lotta. Infatti noi amiamo ripetere che “Sconosciuti puri” non è un film su di lei, ma con lei. La Cattaneo accompagna lo spettatore dentro al mondo molto complesso della medicina legale e anche del lessico tecnico-scientifico per capire come funziona il laboratorio, quali sono le difficoltà, i rischi, e perché tutto ciò è importante. Il viaggio che fa lo spettatore, è un po’ il viaggio che abbiamo fatto anche noi. Ed è stata la Cattaneo ad accompagnarci, mostrandoci anche la forte etica e il un senso del dovere che la contraddistingue. Lei pensa davvero che il lavoro della medicina legale ha un valore sociale, sia per quanto riguarda i crimini più efferati che per i morti nel Mediterraneo. In realtà loro stessi sono vittime di un crimine efferato, di stragi di massa, di cui non sono responsabili solo i trafficanti e gli scafisti. In un modo o nell’altro è la politica internazionale che ne è responsabile».
Gli unici momenti in cui si scopre un lato della vita personale di Cristina Cattaneo sono alcuni momenti molto corti con i suoi cani. È stata una scelta precisa?
«Abbiamo deciso di dare spazio alla vita professionale e lavorativa di Cristina. È stata una scelta presa insieme a lei ma della quale noi due eravamo fermamente convinti, perché volevamo raccontare quella parte di lei. In Italia si parla pochissimo di donne che credono fortemente nella loro professione e che dedicano anima e corpo a un lavoro che hanno scelto e che portano avanti. Noi volevamo fare una narrazione della professionista Cristina Cattaneo. La scelta dei cani è stata sicuramente dettata in parte dalla necessità di inserire dei momenti dove il pubblico potesse un po’ empatizzare con lei, ma soprattutto volevamo far capire la profonda solitudine che secondo me vive e che non è una solitudine affettiva, ma nella sua battaglia politica. Lei è la testa d’ariete che spinge, che guida il suo team, che bussa a un sacco di porte, che cerca di convincere governi e nazioni che identificare le persone è importantissimo. In questa parte del suo lavoro lei è abbastanza sola, ed è sola come tutti i grandi condottieri. Mi spiace utilizzare un termine maschile per parlare di lei, però lei è una grandissima condottiera».
Il film non esplicita mai il perché della sua lotta al di fuori della sua etica personale. Questa è una domanda che vi siete posti?
«Prima di diventare medico-legista Cristina Cattaneo faceva l’archeologa, e dice spesso che studiando come si trattano i morti si impara molto. Però in modo generale non esplicita chiaramente perché fa questo mestiere. Ma forse è anche bello lasciare agli spettatori la possibilità di crearsi la propria storia e di immaginare perché Cristina ha scelto questo lavoro».
Il film rappresenta in qualche modo il “pezzo mancante” della narrazione sulle migrazioni nel cinema italiano. Io capitano racconta il viaggio, Fuocoammare raccontava gli arrivi. Il vostro documentario racconta l’oltre…
«Esatto. Il film si concentra sulle persone che, purtroppo, non ce l’hanno fatta. In un modo o nell’altro è un punto di vista un po’ inedito, e va a completare altre narrazioni. Io capitano e Fuocoammare riguardano in gran parte le persone che arrivano vive. La questione migratoria è molto urgente e ovviamente è importantissimo il modo in cui bisogna preoccuparsi e prendersi cura di chi arriva sulle coste italiane, greche o maltesi, come del resto lo dice anche il nostro film e la Cattaneo stessa in una lezione. Però non bisogna dimenticarsi che occuparsi delle persone che muoiono in mare significa occuparsi anche delle persone che sono ancora vive e che hanno perso i loro parenti. Cristina si è sentita ripetere tante volte, e anche noi mentre cercavamo alleati per il film, “ma perché fare un film sui migranti morti, quando c’è bisogno di preoccuparsi di quelli vivi?”. Ma su questi la cinematografia è molto ricca, soprattutto nel mondo del documentario, ad esempio sui centri di accoglienza, su come la politica funzioni male, su come ci sia del razzismo. È giusto continuare a farli, perché è un tema che deve essere portato sempre alla luce. Però si continua a parlare troppo poco dei migranti morti e di come questo provochi sofferenza alle famiglie e a chi sopravvive».
Il film esce in Italia il 14 marzo. Che cosa vi aspettate?
«Insieme a Cristina Cattaneo, la nostra speranza è che questo film possa diventare uno strumento per sfondare le porte che negli anni sono state resistenti o completamente chiuse di fronte agli appelli umanitari. Abbiamo sempre voluto fare un film che potesse aiutare a far capire al pubblico perché è importante identificare i corpi. L’idea è che il film possa sollevare dei dibattiti, e quindi andare in giro per proiezioni pubbliche. Vogliamo che questi eventi diventino anche dei momenti di confronto con figure politiche, intellettuali o rappresentanti di ong, per poter sollecitare delle risposte a livello politico. Stiamo cercando di fare delle proiezioni al Parlamento Europeo, in Vaticano, al Quirinale, che arrivino direttamente agli occhi dei politici. Pensiamo che il nostro film possa stimolare delle riflessioni nella società. L’obiettivo è anche quello di che si arrivi a una legge che costringa tutti gli Stati europei a identificare i corpi: adesso è obbligatorio farlo sono se è stato commesso un crimine. Se di un naufragio vengono identificati subito i trafficanti che poi vengono processati e imprigionati, non c’è la necessità, da un punto di vista legale, di identificare i morti, che quindi vengono completamente dimenticati. Inoltre, vorremmo portare a Milano il barcone “Barca Nostra’” che si vede nel film, e che ad oggi sta marcendo in Sicilia. Vorremmo fare in modo che venga esposto come una sorta di memoriale. Cristina Cattaneo ha recentemente fondato il Museo Universitario delle Scienze antropologiche, mediche e forensi per i Diritti Umani (MUSA), che affronta e spiega molto bene cosa vuol dire identificare, e perché è importante farlo. Il barcone potrebbe diventare una sorta monumento di questa parte sull’identificazione. Lo spostamento del barcone ovviamente ha un costo, quindi cercheremo di fare una campagna e una sorta di crowdfunding».