Presente con una comunità di sette padri, il Pime si accinge ad aprire una nuova missione ai margini di Città del Messico
La visita di Papa Francesco sta risvegliando aspettative e speranze nel popolo messicano. Si respira il desiderio di voltare la pagina della violenza, del crimine organizzato, del narcotraffico e dell’impunità. È grande la voglia di rompere il circolo vizioso della corruzione. Tutti sono stanchi di rapine, sequestri ed estorsioni. L’arroganza e la superbia di malviventi, che prosperano sul dolore della gente comune, sono diventate insopportabili. Ma come eliminare tutto questo marciume che dura ormai da decenni? Come fermare una cancrena che il sistema stesso alimenta? Un paio di fatti di cronaca chiariscono bene la realtà in cui viviamo: 43 studenti spariscono nel nulla e ogni investigazione si insabbia; il criminale più pericoloso del Messico, El Chapo Gusman, scappa da un carcere di “massima sicurezza” dopo essersi scavato un tunnel di chilometri, senza che nessuno apparentemente se ne accorgesse. Viene ricatturato solo dopo parecchie settimane. Crimini e atrocità ormai non fanno più notizia: sono la normalità. Ma le famiglie non dimenticano. Vogliono giustizia e vogliono conoscere la verità.
Per questo il Messico si aspetta dal Pontefice parole di pace e di riconciliazione, capaci di consolare e di guarire i cuori feriti; parole che inducano a convertire lo spirito e la mente di chi ha fatto della delinquenza il proprio stile di vita. Ma spera anche che la visita del Papa porti a svolte politiche concrete e non solo a vuoti discorsi di circostanza. Che i politici non confondano misericordia con impunità, che non facciano la guerra per cercare la pace e che non si costruisca la giustizia sulla menzogna. I messicani aspettano con impazienza il giorno in cui «amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno» (Sal 85). Un Messico senza violenza è possibile: bisogna crederci e costruirlo.
E’ quello che anche il Pime, nel suo piccolo, cerca di fare in questo Paese, assumendo con nuovo slancio la sfida e l’impegno dei “pionieri”, arrivati qui già nel 1895 e rimasti sino al 1926, nella diocesi di La Paz, Stato della Bassa California. Dopo un’interruzione di quasi settant’anni, nel 1993, la missione in Messico viene riaperta, questa volta nello Stato di Guerrero. Al momento i missionari sono sette: i padri Luigi Maggioni e Francesco Bonora ad Acapulco; padre Domingos Tchuda impegnato nello studio dello spagnolo a Città del Messico; padre Giovanni Manco ed io a La Concordia e, infine, i padri Damiano Tina e Deodato Mammana in attesa di aprire una nuova missione nella diocesi di Ecatepec.
Due sono i principali ambiti di azione che il Pime ha assunto: la pastorale indigena e le periferie delle grandi città.
La missione di La Concordia è costituita da trentaquattro villaggi, disseminati sulle montagne dello Stato di Guerrero. Per raggiungerli, occorre percorrere interminabili chilometri di strada sterrata che, in tempo di pioggia, mettono a dura prova.
Solo dalle medie in poi i ragazzi cominciano a usare maggiormente la lingua spagnola. Non è difficile rendersi conto che questo idioma continua a essere vissuto come una lingua straniera, pressoché incomprensibile per la gente comune. Così, per quanto belle possano essere le nostre prediche, finché ci esprimiamo in spagnolo, saranno sempre in pochissimi a capirle. Qui l’inculturazione è necessaria: da lì la scelta di buttarsi anche nello studio del mizteco. La lingua è uno strumento a servizio del Vangelo. Parlare di Gesù ai miztechi nella loro lingua è l’obiettivo che ci siamo prefissati.
Certo non è un’impresa facile, ma abbiamo già prodotto due grammatiche di mizteco e siamo a buon punto con la traduzione del messale. Il 9 dicembre scorso, festa di san Juan Diego (l’indio a cui è apparsa la Madonna di Guadalupe), è stata celebrata per la prima volta la Messa in lingua locale. E, d’ora in poi, il nove di ogni mese, la celebrazione eucaristica si farà in mizteco. Sbagliando s’impara, perseverando si migliora.
Nei prossimi mesi, il Pime affronterà una nuova sfida: aprire una presenza missionaria nella diocesi di Ecatepec. La realtà è decisamente pericolosa e si trova alla periferia della megalopoli di Città del Messico: un quartiere costruito sui binari de “La Bestia”, il treno che trasporta i latinos che provano a entrare clandestinamente negli Usa. Questa missione risponde all’invito che il Papa rivolge insistentemente alla Chiesa: uscire, andare verso le periferie del mondo.
Il Pime vuole essere presente in mezzo agli ultimi della società, a servizio di popolazioni vulnerabili, di gente scesa dalle montagne in cerca di fortuna e del tutto impreparata alla dura realtà della città. Nella grande precarietà di questo quartiere – chiamato Bronx o Cartolandia – i missionari dovranno portare la Parola che salva. Una Parola capace di rimarginare le profonde ferite della gente, di consolare, educare, accompagnare, lottare per la dignità e i diritti di un pezzo di mondo dimenticato dall’amministrazione territoriale, ma amato da Dio. La missione del Pime sarà espressione della presenza di Dio in mezzo agli anawim Yhwh (i poveri di Yahveh). Una presenza che vuole arricchire chi ha perso tutto e dare speranza agli sconfitti.
Nelle ferite profonde di questo popolo, dove cresce il desiderio di vendetta, si dovrà seminare misericordia. Una misericordia che non significa solo clemenza e perdono, ma anche verità e giustizia. I messicani hanno bisogno di pastori presenti nell’ordinarietà della vita. Pastori che non solo consolino le vittime della violenza, ma che pure richiamino i criminali. Pastori che non si limitino a predicare perdono e misericordia, ma che, con coraggio, chiedano insistentemente pentimento e conversione