Nello Stato di Andhra Pradesh, il Pime vanta una storia gloriosa. Oggi si rinnovano le sfide, soprattutto in campo educativo. Affrontate anche grazie all’Ufficio Aiuto Missioni del Centro di Milano
Le foto dei vecchi missionari barbuti e canuti pendono dalle pareti dell’episcopio e delle case religiose nelle diocesi di Hyderabad, Nalgonda, Warangal, Khamman, Eluru e Vijayawada. Grassi, Fumagalli, Colombo, Venturin, Beretta, Frascogna e tanti altri evocano origini soprattutto lombarde, venete e campane. Sono i missionari del Pime passati dallo Stato indiano di Andhra Pradesh (da pochi anni diviso con Telangana) da metà Ottocento alle soglie del ventunesimo secolo. Ora rimangono solo una mezza dozzina di missionari italiani.
«Andavano là dove nessuno osava spingersi… Ci hanno amato immensamente, in un modo che a noi risulta incomprensibile… Portando l’istruzione ci hanno restituito la nostra dignità di uomini e hanno cambiato per sempre il volto della società in Andhra». Questi i commenti di persone neppure tanto anziane, laici professionisti o preti cinquantenni, che li hanno conosciuti e sono stati da loro accolti negli ostelli ed accompagnati dall’istruzione di base a quella universitaria. Una “rivoluzione” culturale, perché giocata in favore di indiani fuori casta (dalit), senza rappresentanza, dignità e rispetto; un sistema di stratificazione sociale non facilmente comprensibile per chi viene da fuori, ma evidente in tanti atteggiamenti quotidiani e nella difficoltà a stabilire rapporti sociali alla pari.
Con padre Rayarala Vijayakumar già missionario in Papua Nuova Guinea e ora superiore del Pime in India, percorriamo in due settimane l’itinerario delle vecchie missioni del Pime in Andhra e Telangana. Lo scopo principale è di verificare i progetti di adozione a distanza (circa settemila bambini) che i missionari hanno lasciato in “eredità” alle diocesi locali. Ma il viaggio si trasforma anche in un ritiro spirituale itinerante, alla scoperta di uno spirito missionario che per caratteristiche e intensità, dovute ai tempi e alle circostanze, supera di molto quello delle generazioni successive.
Partiamo da Hyderabad, antico sultanato musulmano e ancora per un po’ capitale comune dei due Stati, ma destinata a essere inclusa nel Telangana. Vescovi, sacerdoti e religiosi vivono in strutture, a volte un po’ datate, lasciate in eredità dai missionari. Un livello di vita dignitoso, ma niente lusso o rincorsa agli ultimi ritrovati tecnologici. Fuori dalle residenze episcopali, dalle cattedrali semplici e luminose e dai viali alberati dove i missionari avevano stabilito le loro residenze, c’è ancora un’India rurale molto vasta, che fatica a sopravvivere, soprattutto in questi anni di siccità che colpisce soprattutto il Telangana. Il punto di congiunzione tra le due realtà sono le scuole e gli ostelli, in cui le diocesi educano ancora oggi migliaia di ragazzi lungo tutto il percorso scolastico. Non potendo beneficiare di alcun aiuto statale – nonostante l’impossibilità del governo di sostituirsi alle Chiese -, le congregazioni religiose sono costrette ad affidarsi alle rette degli studenti. In genere, quindi, possono accogliere solo i figli dei salariati più che dei braccianti agricoli (kuli), la cui paga non sempre arriva a 150 rupie (2 euro) al giorno. Per questo, le diocesi cercano aiuti all’estero in modo da poter assicurare l’istruzione ai figli delle famiglie più povere: ovvero dodicimila ragazzi a Nalgonda e novemila a Warangal, dove tutto parla della figura e dell’opera immensa di padre Augusto Colombo (1927-2009). Quasi altrettanti frequentano a Khammam, mentre duemila e cinquecento sono a Vijayawada.
Stessa situazione nelle altre diocesi, dove la serietà della gestione è testimoniata anche dalla presenza di un ufficio scholarships (borse di studio), di uno staff con a capo un prete diocesano e di una rigorosa registrazione delle spese imposta dal governo per fondi e progetti sostenuti dall’estero. È confortante vedere vescovi e sacerdoti dalit continuare con passione e commozione lo sforzo dei missionari. Danno anzi l’impressione di aver stretto un patto con i ragazzi, per portare anche loro fuori dalla povertà e dall’emarginazione. Fratel Enrico Meregalli, uno degli ultimi missionari rimasti a Eluru, dice che i suoi giovani meccanici ed elettricisti trovano subito lavoro e un salario dignitosi nell’India che cresce. Non solo. Alcuni di loro partono anche per Emirati Arabi e Malaysia. In questi Paesi trovano stipendi più alti con cui migliorano le condizioni di vita delle famiglie e assicurano ai fratelli più giovani la possibilità di studiare.
Nella scuola di St. Francis a Velair, municipalità di Dharmasagar, fuori Warangal, la prima generazione di ragazzi tribali (conosciuti come adivasi nel Nord dell’India e originari di lì) impara ad esprimersi non solo in inglese, ma addirittura nella lingua della locale maggioranza telegu. Si può solo immaginare il retaggio secolare di isolamento, di cui la dominazione coloniale britannica di oltre due secoli (fino al 1947) non si è mai occupata, lasciando tutto, compreso il reperimento delle risorse, all’attività missionaria.
Non raramente l’impegno per l’istruzione si accompagna ancora a quello per la salute. La lebbra è in diminuzione, ma non è scomparsa. Al Leprosy Health Centre di padre Luigi Pezzoni (1931-2013) a Nalgonda ci sono ancora cento pazienti. La maggior parte non ha una casa o una famiglia in cui tornare. Moriranno lì accuditi dalle suore francescane, a cui padre Pezzoni ha affidato l’opera.
Ma le persone che guardano avanti e vedono le nuove emergenze si riconoscono da ciò che lasciano di incompiuto. Per padre Pezzoni, naturalmente, non un nuovo ospedale per la lebbra, ma per i malati di Aids. La nuova comunità, tutta indiana, incaricata dell’opera è riuscita a costruirlo subito dopo la sua morte, poco più di due anni fa. Si tratterà ora di farlo funzionare. Ci sono anche 1.500 bambini dalla prima alla decima classe a Nalgonda, tuttora sostenuti da “genitori” italiani a distanza, attraverso il Centro Pime di Milano: 350 di essi frequentano le prime cinque classi della scuola interna al centro, lasciato da padre Pezzoni; gli altri alloggiano e studiano dove le famiglie riescono a inserirli o presso gli ostelli della diocesi. Questa si occupa anche di una quarantina di bambini portatori sani di Aids. Mentre a Warangal una casa ospita circa 70 bambine e adolescenti nelle stesse condizioni. «Cerchiamo di insegnare loro qualcosa in vista di un lavoro. Ma quale sarà il loro futuro?», si chiede con gli occhi lucidi il sacerdote della Società missionaria indiana che se ne occupa da quindici anni.
A Gundala, nella diocesi di Vijayawada, c’è il più antico ostello della zona. E qui, pochi giorni prima, il Papa ha nominato il nuovo vescovo, padre Joseph Raja Rao Thelegathoti, missionario monfortano locale. Ci sono voluti tre anni e mezzo per individuare un candidato. Il problema è il difficile equilibrio tra le diverse caste di appartenenza dei fedeli e soprattutto del clero, i complessi di superiorità e inferiorità ereditati da una tradizione millenaria tipicamente indiana, i regionalismi e le contraddizioni ancestrali dell’India, la diffidenza verso il leader membro di una casta diversa e il vizio purtroppo reale di promuovere i propri ed escludere gli altri una volta raggiunta una posizione di leadership.
La Chiesa e i cristiani in genere hanno bisogno di unità anche di fronte alle nuove sfide sociali e politiche. Per molti, la batosta elettorale del Partito del Congresso, tollerante e secolare, l’anno scorso, è dovuta essenzialmente a due ragioni: corruzione e disinteresse per le campagne. «Per i poveri non hanno fatto niente», dice padre Leone Kondru a Vijayawada. Ora è tornato al potere il Bharatiya Janata Party. Ma è portatore di istanze ideologiche indù, controllato da persone di alta casta e quindi ancora una volta insensibile alle istanze dei poveri. «La Chiesa oggi – dice mons. Mathew Cheriankunnel, vescovo del Pime in pensione – è molto impegnata nel sociale, ma non fa più molto appello all’evangelizzazione e alla conversione. In parte, ciò è anche dovuto ai movimenti radicali indù, soprattutto nell’India centrale, che cercano di far passare precise leggi anti-conversione con l’obiettivo apparente di preservare l’identità storica del Paese e ridurre l’influenza esterna».
In realtà, dice il superiore locale del Pime, padre Vijaykumar, «il vero motivo per noi di rimanere in Andhra e Telangana è di coltivare lo spirito missionario tra i numerosi sacerdoti locali e aiutarli a impegnarsi con generosità all’interno e all’esterno dell’India». Padre Vijaykumar guarda soprattutto alla formula dei sacerdoti temporaneamente associati al Pime per alcuni anni in Paesi non troppo impegnativi dal punto di vista dell’inserimento linguistico e culturale, ma con grandi necessità di servizio pastorale. Sono tuttavia almeno una cinquantina anche i giovani indiani che negli ultimi decenni sono diventati membri del Pime e lavorano all’estero. Uno dei tanti frutti dell’antico impegno missionario nello Stato indiano di Andhra Pradesh.