Un anno dopo l’inizio del conflitto, l’Onu definisce la situazione sudanese «uno dei peggiori disastri umanitari della storia recente». Migliaia di morti e quasi 9 milioni di persone costrette a lasciare le loro case. Ma nessuno ne parla. E nessuno interviene
A un anno dall’inizio della guerra, scoppiata a metà aprile 2023, la situazione in Sudan è catastrofica e apparentemente senza vie d’uscita. Le Nazioni Unite parlano di almeno 15 mila morti, ma il dato è probabilmente sottostimato, e sono milioni i civili che si trovano in condizioni di estremo bisogno: tra questi, più di 730 mila bambini malnutriti. Ma il dato più drammatico riguarda il numero record di profughi e sfollati che sono ormai quasi 9 milioni, secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr). La maggior parte di questi (più di 6 milioni) sono sfollati interni, altri 2 milioni hanno trovato riparo nei Paesi confinanti, specialmente in Ciad, Egitto e Sud Sudan.
Non solo: quasi 20 milioni di minori non vanno a scuola da un anno, mentre sono 25 milioni le persone che necessitano di assistenza umanitaria urgente, perché rischiano di morire di fame o per le pessime condizioni igienico-sanitarie, anche perché solo un terzo degli ospedali è attualmente funzionante. Oltre ai bambini, anche le donne sono tra le categorie più vulnerabili e moltissime hanno subito violenza. Quello sudanese è «uno dei peggiori disastri umanitari della storia recente», affermano le Nazioni Unite, ma anche una delle crisi meno mediatizzate.
Il conflitto scoppiato lo scorso anno vede contrapporti l’esercito sudanese del generale Abdel Fattah al Burhan e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (Rsf), guidato da Mohamed Hamdan Dagalo (conosciuto come Hemedti). Quest’ultimo si era rifiutato, a fine 2022, di integrare le proprie milizie nell’esercito regolare. Dopo i primi drammatici scontri avvenuto nella capitale Karthoum, le violenze sono poi dilagate in altre zone del Paese. In particolare, la regione del Darfur è tornata a essere al centro di scontri pesantissimi anche a causa degli interessi legati allo sfruttamento delle miniere d’oro da parte delle Rsf, che discendono dai famigerati janjawid, già in passato responsabili di stragi e atrocità proprio in questa regione. In risposta, l’esercito regolare ha iniziato a bombardare tutti i territori controllati dalle milizie, provocando moltissime vittime civili. Il Darfur oggi è la regione con il maggior numero di sfollati interni (più di 2 milioni e mezzo secondo l’Unhcr). La scorsa settimana altre 5-7 mila persone sono dovute fuggire da El-Fasher, a causa di nuovi attacchi, condannati anche del segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres: «Due generali che hanno deciso di passare alle armi e fino a ora hanno ostacolato qualsiasi tentativo di mediazione diplomatica». Intanto, continua l’esodo senza fine soprattutto di donne e bambini.
Nel corso dei mesi, la guerra si è fatta sempre più cruenta. Le Rsf hanno avuto sin dall’inizio il supporto del gruppo Wagner russo e degli Emirati Arabi Uniti, mentre l’esercito sudanese è sostenuto dall’Egitto. Dopo alcuni tentativi di tregua, soprattutto all’inizio del conflitto – peraltro quasi sempre non rispettati -, la situazione è peggiorata drasticamente. Tra le conseguenze, la mancanza di elettricità, che ha messo particolarmente in difficoltà gli ospedali. I pochi ancora funzionanti riescono a malapena a occuparsi dei feriti di guerra. Dal 17 marzo, però, Emergency è riuscita ad aprire un ambulatorio pediatrico nella capitale, all’interno del Centro “Salam” di cardiochirurgia, per dare un supporto alla cura dei bambini. Si tratta di punto di svolta importante dopo che l’associazione era stata costretta a chiudere i centri di Mayo, Nyala e Port Sudan all’inizio della guerra.
L’emergenza però non riguarda solo la gestione interna degli ospedali, ma anche la mancanza di rifornimenti e di medicinali che dovrebbero giungere nel Paese via mare. Le recenti minacce e gli attacchi nel Mar Rosso da parte degli houthi dello Yemen hanno ulteriormente complicato la situazione e bloccato le navi che trasportano le forniture.
All’inizio di marzo, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha chiesto nuovamente un immediato cessate-il-fuoco per il Ramadan e di consentire l’accesso agli aiuti umanitari. Purtroppo però le due parti non hanno trovato un accordo. Il vicedirettore esecutivo del Programma alimentare mondiale (Wfp), Carl Skau, ha dichiarato che sono urgentemente necessari sforzi comuni da parte della comunità internazionale per contrastare la crisi alimentare ed evitare che diventi la più grave al mondo. Sinora, però, a fronte di un piano di aiuti stimato a 2,7 miliardi di dollari, è stato raccolto solo il 6%.
A un anno dall’inizio del conflitto, dunque, la sua fine sembra ancora lontana e imprevedibile. Le violazioni del diritto internazionale denunciate in seguito alle violenze commesse dalle parti belligeranti esigono immediata attenzione e risposta. Così come la reazione alla gravissima carestia, dovuta anche all’interruzione delle attività agricole, che potrebbe causare altre migliaia di vittime. Nella Conferenza tenutasi il 15 aprile a Parigi, l’Unione Europea ha dichiarato che si impegnerà a raccogliere 2 miliardi di euro da stanziare per un nuovo piano di aiuti in Sudan. All’inizio della Conferenza, la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock ha dichiarato che «insieme possiamo evitare una terribile catastrofe alimentare, ma solo se agiamo subito».