La storia di padre Engelmar Unzeitig, missionario della congregazione di Mariannhill, che finì a Dachau perché in Austria non era rimasto in silenzio di fronte alla persecuzione degli ebrei. Nei giorni scorsi il Papa ha riconosciuto la sua morte per tifo come un martirio
In questa Giornata della memoria 2016 il mondo missionario ha davanti a sé una figura particolarmente interessante da riscoprire. Appena pochi giorni fa, infatti, papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto della Congregazione per le cause dei santi che riconosce il martirio del missionario moravo padre Engelmar Unzeitig, che diventerà così il primo beato della congregazione di Mariannhill.
È una storia interessante di per sé quella dei padri di Mariannhill, una congregazione nata in ambito trappista nel 1880 per la fondazione di un monastero in Africa e poi – a partire dall’esperienza concreta là – trasformatasi all’inizio del Novecento in un carisma missionario del tutto particolare, staccatosi dalla famiglia monastica di provenienza. A guidarli le parole del loro primo priore, che a quella richiesta di una fondazione in Africa durante un capitolo aveva risposto: «Se nessun altro vuole andarci, ci vado io».
Era dunque con la prospettiva di una vita donata alla missione ad gentes che era maturata la vocazione di padre Engelmar, giovane nato a Greifendorf, nell’attuale Repubblica Ceca nel 1911. Frequentato il seminario dei padri di Mariannhill in Baviera fu ordinato prete a Wurzburg il 6 agosto 1939; cioè appena una manciata di giorni prima dell’invasione tedesca della Polonia, che diede inizio alla Seconda Guerra mondiale. In quel contesto diventava impossibile la partenza per la missione; fu così, allora, che nell’autunno 1940 fu destinato all’Austria, dove il vescovo di Linz cercava un prete a cui affidare la parrocchia di Glöckelberg, nella Foresta della Boemia, ai confini con l’attuale Repubblica Ceca.
Fu in quell’Austria anch’essa dominata dai nazisti che il giovanissimo padre Engelmar Unzeitig visse gli inizi del suo ministero pastorale. Ma li visse senza chiudere gli occhi intorno a quello che stava succedendo. Li visse sentendo il dovere di fare sentire la sua voce, persino apertamente dal pulpito, contro le persecuzioni nei confronti degli ebrei che si facevano ogni giorno più drammatiche. La cosa non passò evidentemente inosservata. Così molto presto, il 21 aprile 1941, la Gestapo si presentò alla sua porta. Quaranta giorni dopo era già a Dachau, nella parte del campo dove erano internati anche altri preti che avevano detto no al nazismo e i prigionieri politici.
E lì capitò l’altro fatto straordinario nella vita di questo religioso: il detenuto 26147 – come recitava il numero a cui l’orrore nazista l’aveva ridotto – visse l’internamento nel campo di concentramento davvero come un missionario. Non solo per l’aiuto che portava a tutti, privandosi anche di parte dello scarso cibo per soccorrere chi aveva più bisogno (lo chiamavano l’Angelo di dachau). Raccontano che nel campo di concentramento imparò anche il russo, per prestare assistenza fisica ma anche spirituale ai prigionieri russi. Realizzò per loro anche un piccolo catechismo. Un’opera al cento per cento di evangelizzazione, considerato come era stato cancellato Dio dall’orizzonte dell’Unione Sovietica in quegli anni.
Da Dachau padre Unzeitig ha scritto numerose lettere che sono una grande testimonianza sulla misericordia: «Qualunque cosa facciamo, qualsiasi cosa desideriamo, è solo la grazia che ci conduce e ci guida – si legge in uno di questi testi -. La grazia di Dio onnipotente ci aiuta a superare ogni ostacolo, l’amore raddoppia le nostre forze, ci rende creativi, a volte persino contenti e interiormente liberi. Se solo le persone sapessero che cosa Dio ha in serbo per quanti lo amano».
Questo modo di vivere la prigionia arrivò fino alla scelta consapevole di donare la vita: nel 1944 proprio nella baracca dei russi scoppiò un’epidemia di tifo. Il sistema nazista in quei casi era molto semplice: abbandonavano i malati a sé stessi, isolandoli per evitare la diffusione del contagio. In quella situazione padre Engelmar Unzeitig si offrì volontario per stare con loro, ben sapendo che avrebbe contratto anche lui la malattia. Morì il 2 marzo 1945.
Proprio per via di questo gesto la Congregazione per le cause dei santi ha deciso di considerare la sua morte un martirio, anche se materialmente a ucciderlo è stato il tifo e non una condanna a morte dei nazisti. In analogia a quanto accaduto con il celebre caso di san Massimiliano Kolbe, si può considerare anche lui un martire della carità. Ma soprattutto un martire del coraggio di chi – già quattro anni prima – non aveva accettato di restare in silenzio davanti all’orrore della Shoah.