Ai Giochi di Parigi c’è anche una delegazione di 36 atleti rifugiati da 11 Paesi. Rappresentano 120 milioni di profughi e incarnano il riscatto attraverso lo sport
Adnan Khankan ha scoperto il judo da bambino, durante la sua infanzia a Damasco. Si è innamorato di questo sport e dei suoi valori dal primo momento in cui, a dieci anni, ha messo piede nel dojo in cui un amico di famiglia insegnava le arti marziali. Questa passione lo ha portato a vincere la sua prima competizione locale, per poi bruciare le tappe fino a riuscire a entrare nella squadra nazionale juniores, con cui ha partecipato ai campionati continentali.
Poi, quando Adnan aveva diciassette anni, nel suo Paese è scoppiata la guerra, che in questi anni ha spinto quasi quattordici milioni di cittadini a lasciare la Siria. Il giovanissimo judoka era tra loro: dopo un lungo e pericoloso viaggio verso l’Europa, ha trovato una nuova vita in Germania. Ed è tornato a indossare il judogi e ad allenarsi, sognando di diventare un campione. Ricorda ancora il brivido provato quando, nell’agosto 2016, ha visto in tv le immagini della prima squadra olimpica di rifugiati, ai Giochi di Rio de Janeiro. «È stata un’iniezione di speranza», ha raccontato.
Certo, allora non avrebbe immaginato che, 8 anni dopo, a Parigi 2024 ci sarebbe stato anche lui. Adnan fa parte dei 36 atleti, provenienti da 11 Paesi, che alle Olimpiadi francesi rappresentano i 120 milioni di uomini e donne che hanno dovuto abbandonare la propria casa e spesso la propria patria a causa di conflitti, crisi umanitarie e, sempre più, anche per le conseguenze di disastri ambientali. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per i rifugiati, il numero di persone in fuga nel mondo è raddoppiato negli ultimi 10 anni. Se la Siria resta il Paese con più cittadini trasformatisi in profughi – addirittura 13,8 milioni -, al recente peggioramento dello scenario hanno contribuito le guerre in Congo, in Myanmar, a Gaza e soprattutto in Sudan, dove dall’aprile 2023 sono stati registrati quasi undici milioni di persone sradicate dalle proprie abitazioni.
Proprio dal Sudan, dalla martoriata regione del Darfur, viene Jamal Abdelmaji, che a Parigi correrà i 5.000 metri. La sua è una storia di resilienza e riscatto, come quelle della canoista iraniana Saman Soltani, o del velocista congolese Dorian Keletela, o ancora della mezzofondista etiope Farida Abaroge. Nato nel 1993, Jamal fuggì dal Darfur quando era solo un adolescente, separandosi dalla madre e dai fratelli, e viaggiò attraverso l’Egitto e il deserto del Sinai fino a raggiungere Israele. Qui, in questi anni, non solo ha ottenuto la protezione umanitaria, ma ha trovato una nuova casa all’Alley Runners Club, un club sportivo di Tel Aviv che lo ha aiutato a rimettersi in piedi e in pista. Dopo aver già gareggiato ai Giochi olimpici di Tokyo 2020, ora ci riprova in Francia.
La squadra dei rifugiati, nata per iniziativa del presidente del Comitato olimpico internazionale (Cio) Thomas Bach, rappresenta – ha detto l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Filippo Grandi – «ciò che gli esseri umani possono fare anche di fronte a estreme avversità e ci ricorda che lo sport può essere trasformativo per le persone le cui vite sono state interrotte in circostanze spesso angoscianti». La delegazione – composta da 23 uomini e 13 donne e finanziata dal programma Olympic Solidarity, che consente di nominare atleti residenti nei diversi Paesi – riunisce sportivi ospitati da 15 Comitati nazionali olimpici, dal Canada alla Gran Bretagna, dal Messico alla Giordania. E, per la prima volta, c’è anche l’Italia: il ventinovenne iraniano Iman Mahdavi, campione nazionale di lotta libera, si allena a Pioltello, nell’hinterland milanese, mentre il suo connazionale Hadi Tiranvalipour, 26 anni, ha trovato casa a Roma, dove pratica il taekwondo al Centro di preparazione olimpica del Coni. Fenomeno sportivo già da giovanissimo, in patria Hadi conduceva un programma tv per avvicinare il pubblico a uno stile di vita salutare ma, quando scoppiarono le proteste di piazza contro la condizione delle donne nel Paese, fece “l’errore” di parlarne in tv. Fu sospeso e, scaduta la deroga dal servizio militare, si sarebbe dovuto arruolare per due anni. Scelse la fuga e oggi sta coronando il suo sogno più grande.
La presenza dei 36 atleti rifugiati sulle piste e negli stadi di Parigi non rappresenta solo un traguardo simbolico. Se a Rio 2016 e a Tokyo 2020 la squadra si è accontentata di partecipare, senza la speranza di salire sul podio, oggi potrebbe essere diverso: «All’inizio eravamo lì per inviare un messaggio – ha dichiarato il mezzofondista sud sudanese Yiech Pur Biel, che faceva parte della prima delegazione ed è poi diventato membro del Cio -. Questa volta punteremo alla medaglia. Cambieremo livello».
Tra le atlete più promettenti c’è la pugile Cindy Ngamba, originaria del Camerun ma arrivata in Gran Bretagna da adolescente. Ventisei anni, ha collezionato tre titoli al campionato britannico e oggi è la prima atleta rifugiata a partecipare al torneo di boxe delle Olimpiadi. Una tipa tosta, come tante sue compagne. E come la capo delegazione della squadra, la ciclista afghana Masomah Ali Zada, che nonostante la disapprovazione delle fasce più conservatrici della società – e con l’ostacolo aggiuntivo di appartenere alla minoranza discriminata degli hazara – ha iniziato a pedalare con un gruppo di altre giovani donne riuscendo a unirsi alla nazionale di ciclismo. Nel 2016, la pressione nel Paese è diventata troppo forte e Masomah ha chiesto asilo in Francia. Ora studia ingegneria civile a Lille. Ai 36 atleti della delegazione ha detto: «Con tutte le sfide che avete affrontato, ora avete la possibilità di ispirare una nuova generazione, di rappresentare qualcosa più grande di voi e di mostrare al mondo di che cosa sono capaci i rifugiati».