Missione come cura e accoglienza

Missione come cura e accoglienza

In un Paese musulmano come il Bangladesh parlano soprattutto i gesti, i sorrisi e un modo diverso di prendersi cura. Di tutti. Soprattutto di quelli che nessuno vuole

Nel 2001 sono venuta per la prima volta in Bangladesh, nell’ambito del cammino di Giovani e Missione. Ero una giovane dottoressa, in cerca della mia strada. Ed è proprio su una strada del Bangladesh, mentre viaggiavo con una suora dell’Immacolata, che si sono aperti gli occhi del cuore! Ero curiosa, volevo vedere, capire, gustare la vita di queste missionarie che poi sono diventate la mia famiglia. Ho fatto una domanda che mi ha fatto intuire che quella poteva essere la mia vita: ho chiesto in che modo venissero scelte le terre di missione. La risposta è stata: «Sono quelle dove nessuno ha ancora parlato di Gesù». Queste parole mi hanno affascinata e le ho messe nel cuore insieme a quello che avevo vissuto in Bangladesh e che mi aveva aiutato a decidere di mollare tutto per diventare, appunto, una missionaria dell’Immacolata. Il Signore è fedele alle sue promesse e quello che è stato il luogo dell’innamoramento è diventato anche il luogo dell’amore per sempre, la mia missione in mezzo alla gente per cui spendere la vita.
Ora sono in Bangladesh da 13 anni, nel Damien Hospital di Khulna, a prendermi cura dei più poveri ed emarginati: i malati di lebbra e tubercolosi. Qui sento particolarmente coerente con il mio servizio il titolo che Papa Francesco ha voluto dare al messaggio per la Giornata missionaria mondiale: «Andate e invitate tutti al banchetto (Mt 22,9)». Tutti! Soprattutto quelli che nessuno vuole!
In questi anni di presenza a Khulna non ho mai parlato di Gesù. È difficile farlo in un Paese musulmano. Del resto, non voglio certo convertire i musulmani; desidero solo che siano delle brave persone con valori tali da consentire a tutti una vita dignitosa e bella.
Sono medico e quindi mi prendo cura di loro: una parola in più detta magari col sorriso o con maggiore enfasi se non capiscono; una mano sulla spalla mentre ascolto i loro polmoni; una battuta per far sentire meno pesante il male… Bisogna essere segno di speranza per tutti, in particolare per questi pazienti che non troverebbero assistenza da nessun’altra parte e che sono ancora stigmatizzati a causa della loro malattia. Non parlo di Gesù, ma lo mostro attraverso la mia cura. Credo che l’amore gratuito sciolga il cuore di tutti. E allora questa gente prima o poi si chiede il perché di questo amore, ma questo tempo non sono io a definirlo. Non parlo esplicitamente dell’amore di Dio. Attraverso le mie mani, i miei occhi, le mie parole passa l’amore del Padre che ha travolto la mia vita e l’ha cambiata: mi ha sollevata da una situazione di sofferenza per farmi suo strumento laddove ce n’è più bisogno. Quindi il mio essere missionaria dell’Immacolata è innanzitutto questo: essere strumento della misericordia del Padre per le persone che incontro ogni giorno; essere balsamo per le loro ferite, perché così come Lui lo è per me, io devo esserlo per loro.