Beatificato nel 2022, padre Giuseppe Ambrosoli ha lasciato tracce profonde nel Nord dell’Uganda, dove la Fondazione a lui intitolata porta avanti l’ospedale e la scuola di ostetricia in una regione tuttora poverissima. Ascolta anche il PODCAST
Sono passati 47 anni dalla morte, ma la sua memoria è ancora straordinariamente viva a Kalongo, dove padre Giuseppe Ambrosoli, missionario comboniano e medico, ha lasciato una traccia indelebile. Qui infatti è vissuto per più di trent’anni e in questa regione, a Lira, è morto il 27 marzo del 1987 – di malattia e sfinimento, dopo essere stato costretto a evacuare il suo ospedale a causa della guerra civile. A Kalongo, è stato anche proclamato beato il 20 novembre 2022, in mezzo alla sua gente, gli acholi del Nord Uganda.
Ma quella di padre Ambrosoli – il “medico della carità” – non è solo una memoria radicata nella mente e nel cuore di chi l’ha conosciuto. È una testimonianza viva di impegno per la sanità – e più in generale per la dignità di ogni uomo, donna e bambino – che continua a essere portato avanti in questa zona tuttora remota e isolata, dove l’accesso alle cure non è per nulla scontato. Oggi l’ospedale e i 33 dispensari che ad esso fanno riferimento coprono un bacino di mezzo milione di persone che altrimenti non avrebbero nessuna possibilità di curarsi. Non solo: l’impegno e lo stile di padre Giuseppe continuano a contraddistinguere il lavoro di chi opera direttamente nell’ospedale che oggi porta il suo nome – “Dr. Ambrosoli Memorial Hospital” -, ma anche quello della Fondazione presieduta dalla nipote Giovanna Ambrosoli.
«Posso dire di aver conosciuto la grandezza di padre Giuseppe solo quando sono andata a Kalongo – ammette la presidente -. È lì che mi sono resa davvero conto di quanto la sua figura di uomo mite e semplice, ma molto rigoroso ed esigente nel lavoro, e completamente dedito ai suoi pazienti, abbia lasciato un segno. La “compassione” è sempre stata una cifra pregnante del suo modo di essere e di relazionarsi agli altri, che non significa in nessun modo debolezza, anzi. Mi hanno molto colpito le testimonianze di tante persone, in particolare della generazione degli anziani e dei saggi della comunità. Ma anche il modo in cui la gente si è presa cura dell’ospedale durante i tre anni di chiusura a causa della guerra civile. Quando è stato riaperto, grazie a un altro comboniano, padre Egidio Tocalli, lo hanno trovato praticamente intatto».
È uno dei tanti “miracoli” – oltre a quello riconosciuto ufficialmente e che ha portato alla beatificazione di padre Ambrosoli – che si sono verificati e che continuano a realizzarsi a Kalongo. La regione, infatti, non è molto diversa da come l’ha trovata il missionario comboniano quando vi è arrivato nel 1956. Certo, oggi è finalmente pacificata, ma resta estremamente arretrata, anche a causa della mancanza di infrastrutture, in particolare di strade facilmente percorribili. «A volte si sarebbe tentati di tornare indietro!», ammette Giovanna Ambrosoli che, tuttavia, da quindici anni ormai, non smette di fare la spola con Kalongo. La Fondazione, infatti, sostiene il grosso dell’impegno finanziario necessario per il funzionamento della struttura, anche perché il contributo dei pazienti copre solo il 10% delle spese: «La gente è troppo povera. Non è possibile chiedere di più».
Lei stessa, però, dopo la prima visita, ha pensato di mettersi in gioco direttamente: «Sono rimasta affascinata e anche un po’ travolta da quell’esperienza. E ho pensato che avrei potuto dare anch’io un contributo professionale a livello organizzativo e operativo per garantirne il futuro». E così un’altra Ambrosoli si è inserita nella scia di quel medico missionario che era partito dalla provincia di Como per donarsi all’Africa.
Originario di Ronago, il padre di Giuseppe aveva fondato la nota azienda produttrice di miele, mentre il nonno materno era conosciuto nel capoluogo lariano come “il medico dei poveri”. Accanto al desiderio di diventare lui stesso medico, maturò la vocazione missionaria in un campo di addestramento in Germania, dove venne mandato dalle autorità della Repubblica di Salò, dopo che aveva aiutato molti ebrei, ex militari e renitenti alla leva a rifugiarsi in Svizzera.
«Dio è amore e io sono il suo servo per la gente che soffre», fu l’ideale che lo accompagnò per tutta la vita e che si realizzò attraverso un lavoro indefesso per far sì che il piccolo dispensario di Kalongo, fondato dai missionari e dalle missionarie comboniani, diventasse un vero e proprio ospedale. Non fu facile. Non solo per l’isolamento, ma anche per i continui conflitti: l’Uganda, infatti, è stata funestata prima dalla guerra civile e poi, soprattutto nelle regioni del Nord, da una delle più atroci guerriglie dell’Africa, il Lord’s Resistance Amry (Lra), che si è reso responsabile di oltre centomila morti, 1 milione 600 mila sfollati, nonché del rapimento di decine di migliaia di bambini e bambine costretti a combattere.
L’ospedale, tuttavia, ha continuato a funzionare tra molte difficoltà. E, lì accanto, è stata creata la St. Mary’s Midwifery Training School, una scuola di ostetricia, che ha formato più di 1.600 professioniste. Il tema della formazione, del resto, era sempre stato molto presente e caro a padre Giuseppe, che puntava molto sul personale locale. «Oggi, nonostante tutto, quello di Kalongo è un ospedale moderno ed efficiente e la scuola di ostetricia è riconosciuta come una delle migliori del Paese».
Attualmente l’ospedale ha circa 300 posti-letti e impiega 250 persone tutte ugandesi. Ogni anno fornisce cure a 50 mila pazienti, inclusa l’assistenza nei villaggi circostanti. Accanto alla sua vocazione materno-infantile, ha sviluppato reparti dedicati alla medicina generale, alla chirurgia, alla cura della tubercolosi e della malnutrizione. È dotato di un poliambulatorio per pazienti esterni, un laboratorio di analisi e radiologia e tre sale operatorie. Inoltre, ospita ambulatori per malati di Hiv/Aids, disturbi psichici ed epilessia.
«La scuola di ostetricia – sottolinea la presidente della Fondazione – offre una formazione completa, che va oltre le competenze specifiche. Anche per questo molte studentesse vengono da lontano. Sanno che la scuola di Kalongo ha un valore speciale. Io stessa vi ritrovo, grazie anche a una direttrice illuminata come suor Carmel, i valori di padre Giuseppe: professionalità, umiltà, empatia, empowerment femminile, con ricadute positive non solo sulle singole persone, ma su tutta la comunità. Si lavora con una visione olistica, che comprende un aspetto importante di spiritualità».
Un aspetto che viene curato in particolare dai comboniani che sono sul posto, come padre Guido Miotti, uno “storico” con i suoi 90 anni, e due sudamericani. «Le persone devono sentire l’influsso del Gesù che porto con me; devono sentire che in me c’è una vita soprannaturale», diceva sempre padre Ambrosoli. «È qualcosa che si sente ancora oggi a Kalongo – ribadisce la nipote -. La sua beatificazione poi ha avuto una valenza fondamentale. In chiesa c’è una teca con la sua immagine e le reliquie dove la gente va sempre a pregare. E le persone che lo hanno conosciuto lo considerano già un santo».
«Adesso è nostra responsabilità portare avanti sia la memoria che l’opera di padre Giuseppe – continua -. Le difficoltà non mancano. E le misure prese per contrastare la pandemia di Corinavirus hanno ulteriormente aggravato la situazione. Si stima che il tasso di povertà sia salito dal 33 al 68%. Il governo, inoltre, ha diminuito progressivamente il suo contributo, che attualmente è del 12% circa, e ha introdotto politiche che svantaggiano ospedali come il nostro, oltre a non rispettare i tempi delle erogazioni e, talvolta, a tagliare i progetti».
Anche in Italia, l’attenzione e la sensibilità nei confronti dei contesti di missione e di cooperazione non sono certamente aumentate in questi anni, così come la copertura mediatica di realtà considerate “lontane” e la solidarietà.
«Ci sono però anche esempi positivi che ci incoraggiano ad andare avanti – sottolinea la presidente della Fondazione che attualmente arriva a coprire circa il 30% del budget – come il caso di un medico che dopo trent’anni ha deciso di tornare a Kalongo, come segno di restituzione di quello che aveva ricevuto lì. Lo stesso vale per la collaborazione con alcune università come la Bicocca e la Statale di Milano o quella di Torino, che mandano tirocinanti e specializzandi. Questo crea anche legami e ponti. E ci aiuta a portare avanti la nostra missione di fedeltà al popolo del Nord Uganda e di coerenza ai valori spirituali e professionali di padre Giuseppe».