Il film “La storia di Souleymane” racconta due giorni nella vita di un rider guineano a Parigi in attesa del colloquio per ottenere lo status di rifugiato. Costretto a un lavoro abusivo, è sfruttato e sottoposto a ritmi disumani, sotto lo sguardo indifferente della gente
Li vediamo sfrecciare in bicicletta tutti i giorni sulle nostre strade. Volti africani, asiatici, sudamericani, ma talvolta anche italiani. È il popolo dei rider che portano il cibo che ordiniamo, pagati pochi euro per ogni consegna. A rischio di essere investiti o di incontrare clienti che li trattano in malo modo. Il regista francese Boris Lojkine ha voluto raccontare la vicenda di un giovane guineano in attesa del colloquio con le autorità per chiedere l’asilo politico, che tenta di sopravvivere a Parigi facendo il rider illegale. La storia di Souleymane, in uscita il 10 ottobre ottobre nei cinema italiani, è stato presentato al Festival di Cannes, dove ha ricevuto il Premio della Giuria, mentre il protagonista Abou Sangaré ha vinto quello per la migliore interpretazione maschile.
Anche se il contesto è quello francese, non cambia molto rispetto a quello italiano o di altri Paesi europei. La storia di Souleymane – questo è il nome del protagonista – si svolge nell’arco di due giorni interminabili in cui il ragazzo corre in bicicletta da un angolo all’altro di Parigi, in mezzo agli ingorghi o sotto la pioggia scrosciante, e intanto pensa con ansia al colloquio che lo attende. Ha già presentato domanda, ottenendo l’appuntamento presso l’Ofpra, l’ufficio che si occupa dei rifugiati e degli apolidi: il suo futuro dipende dal funzionario che ascolterà la sua storia e deciderà se concedergli lo status di rifugiato per restare in Francia o lo respingerà. Come si scopre nel corso del film, Souleymane non è un perseguitato politico fuggito dalla Guinea, il suo Paese d’origine. È scappato perché non ce la faceva a vivere con i miseri guadagni del suo lavoro da meccanico, con i quali doveva mantenere anche la madre malata di mente, ripudiata dal padre e ostracizzata dalla comunità.
Quella di Souleymane è la storia di tanti africani che approdano in Europa sognando un futuro migliore. Il permesso di soggiorno per asilo politico è la via più semplice per restare e rifarsi una vita con i documenti in regola. Ma nei Paesi europei le maglie per l’ottenimento dello status si sono fatte sempre più strette. Nel sottobosco, c’è chi ci guadagna con i richiedenti asilo, aiutandoli a imbastire una storia credibile per gli esaminatori. Nel film, Barry – un africano residente a Parigi – ha messo in piedi un ufficio illegale in cui fornisce un servizio: addestra i migranti a superare il colloquio, fornendo loro falsi documenti, come la finta tessera di un partito guineano d’opposizione, che Souleymane presenterà all’Ofpra, per dimostrare di essere stato arrestato per la sua militanza.
Barry non è l’unico a sfruttare i migranti illegali in difficoltà. Souleymane corre come un dannato da una consegna all’altra in bicicletta, svolgendo un lavoro che non potrebbe fare perché non ha i documenti per vivere in Francia. Emmanuel, un africano di seconda generazione che lavora in un negozio, gli affitta un account come rider. Soylemane lavora, e i soldi di ogni consegna finiscono sul conto di Emmanuel, che trattiene il 40 per cento. Dovrebbe dargli il resto in contanti per pagare Barry e sopravvivere. Ma sfruttare un migrante che non ha nessun diritto di fronte alla legge è fin troppo facile.
Il film non vuole essere una favola buonista e sceglie di raccontare le cose esattamente come accadono. È più facile che sia gentile con un migrante illegale il volontario francese che all’alba offre a Souleymane una tazza di tè caldo che un africano che sta un po’ meglio di lui e non si lascia sfuggire l’occasione per fregarlo. Le difficoltà della vita non rendono necessariamente le persone più solidali.
Mentre ripassa mentalmente la storia da perseguitato politico inventata di sana pianta e che dovrà raccontare, durante il lavoro Souleymane incontra ristoratori gentili ma anche razzisti, clienti capricciosi e poco empatici, che trattano il rider come se fosse un servo a loro disposizione. E ci si domanda come la nostra società sia potuta diventare così diseguale e insensibile, e come le persone siano arrivate a ritenersi in diritto di umiliare gratuitamente l’altro, senza farsi alcuno scrupolo. È tenera la figura dell’anziano francese, che vive solo e che tenta di parlare con Souleymane, interessandosi al suo destino: è l’unico a rivolgersi a lui come persona. Ma il ragazzo è risucchiato dalla macchina infernale del lavoro: non può parlare e non può fermarsi perché altrimenti non guadagna, e senza soldi è perduto. Il ritmo di lavoro è schiavistico, ma altri migranti illegali africani si rivolgono ugualmente a Souleymane per farsi dire come diventare rider, perché è l’unico lavoro che possono fare senza documenti. E lui risponde correndo via: non ha tempo per parlare, né per aiutare nessuno. Il suo unico compagno è il cellulare, con cui lavora, cerca dettagli per la sua storia, tiene contatti. È anche il legame con le sue radici, che gli consente di parlare con la madre e con la fidanzata, e di tornare a essere per pochi minuti una persona, con sogni, desideri, legami affettivi.
Guardando questo film, si coglie quanto sia importante per un migrante lontano da casa disporre di un telefonino. Nel racconto, c’è anche il mondo dell’assistenza pubblica e del volontariato: il dormitorio di periferia con i letti a castello, la mensa e la doccia sono un porto sicuro in cui fermarsi, dopo la giornata disumana del protagonista.
Abou Sangaré, 23 anni, di origine guineana, è la vera rivelazione di questo film. Il suo volto racconta le umiliazioni, la sofferenza, la stanchezza, ma anche la determinazione di chi vuole farcela. Attore professionista, nella vita fa il meccanico ed è giunto in Francia sette anni fa, ancora minorenne. Non hai mai fatto il rider, e per prepararsi a questa parte per qualche settimana ha fatto davvero le consegne per sperimentare di persona le difficoltà quotidiane di questo lavoro.
Mentre si guarda il film, a tratti si arriva a dimenticare che è una storia di fiction, inventata: sembra di assistere a un documentario, tanto la sceneggiatura e l’interpretazione degli attori ricalcano la vita vera. E fa riflettere su come la “fortezza Europa” continui a escludere gli ultimi e come il retaggio del colonialismo e l’inadeguatezza dei governi attuali – spesso appoggiati da varie potenze ormai non solo occidentali – abbiano modellato un’Africa da cui moltissimi giovani desiderano fuggire, perché non vedono un futuro.