Da una Guinea all’altra

Da una Guinea all’altra

Originario della Guinea-Bissau, padre Gaudêncio Pereira del Pime si trova attualmente in Papua Nuova Guinea, dopo aver studiato in Brasile e in Italia. Quattro continenti e una destinazione che era già presente nella sua vocazione

Quando ha iniziato a conoscere i missionari del Pime ed è maturata pure in lui la vocazione, questa si è associata, sin da subito, a un luogo ben preciso: la Papua Nuova Guinea. Una terra “mitica” per quello che allora era il giovane Gaudêncio Pereira: una terra che, a sua volta, si associava a un personaggio “eroico”: il beato Giovanni Mazzucconi.

Padre Gaudêncio, 49 anni, originario di un’altra Guinea – la piccola Guinea-Bissau, incastonata in Africa occidentale – è diventato il primo missionario africano del Pime e il primo a uscire dall’Africa per recarsi in Brasile e in Italia per la formazione. Soprattutto, però, è stato il primo a essere destinato proprio in Papua Nuova Guinea, che dal 2013 è diventata la sua missione.

«Ero affascinato dalla storia del Pime e in particolare da quella prima avventurosa e tragica spedizione che aveva portato i missionari dell’Istituto in una terra allora lontanissima e sconosciuta. Una spedizione che si era conclusa con il martirio di Mazzucconi sull’isola di Woodlark nel 1855». Padre Gaudêncio è attualmente parroco della chiesa di St. John the Apostle, nel quartiere di Tokarara, a Port Moresby, ed è responsabile di area per il Pime in Papua Nuova Guinea. Come tutti i missionari che “approdano” in questo Paese dell’Ocea­nia – visitato lo scorso settembre anche da Papa Francesco –  è passato prima dall’isola di Goodenough, dove il Pime è ritornato nel 1981. Quindi, dopo una parentesi nella zona di Madang, nel Nord-est del Paese, è stato chiamato a occuparsi di una parrocchia cittadina, con tante sfide pastorali e sociali che di “mitico” ed “eroico” hanno ben poco, ma che danno senso a una presenza che continua a essere di primo annuncio, di testimonianza e di vicinanza soprattutto alle persone più svantaggiate o abbandonate.

«In Guinea-Bissau – ricorda oggi padre Gaudêncio – sono cresciuto in parrocchie dove erano presenti dei missionari. E a un certo punto ho iniziato a pensare che avrei voluto essere missionario anch’io. Mi colpiva che queste persone avessero scelto di lasciare una vita comoda per stare in mezzo a noi. Mi ha colpito ancora di più quando, durante il conflitto civile, tutti gli stranieri sono andati via e sono rimasti solo loro».

Nato e cresciuto a Catió, in una zona rurale e remota, dove sono presenti i missionari del Pime, Gaudêncio è stato battezzato insieme alla mamma, mentre il padre era già cattolico. A Bissau, dove si è trasferito per gli studi, ha condiviso con alcuni compagni di scuola un cammino di formazione proposto da padre Leopoldo Pastori. «È una persona che mi ha ispirato moltissimo! – dice -. E come me tantissimi altri. La gente adorava sentirlo parlare, cantare, suonare la kora. Era un uomo buono e dalla profonda spiritualità. Tutti gli volevano bene».

Entrato nel seminario diocesano di Bissau, Gaudêncio continua a sentire il desiderio di diventare missionario. Ne parla con padre Guerino Vitali del Pime, che a quel tempo ne era il rettore. È il 1996, e l’Istituto si era aperto da non molto a una dimensione internazionale, dopo aver contribuito a fondare molte Chiese locali in diversi Paesi del mondo, compresa la Guinea-Bissau. Gaudêncio è un pioniere per il suo Paese e per l’Africa. L’allora vescovo Settimio Ferrazzetta, francescano di cui ricorre l’8 dicembre il centenario della nascita, non è contrario di principio, ma vorrebbe rinforzare la presenza del clero diocesano.

Gaudêncio, però, parte per seguire la formazione del Pime in un seminario del Brasile: «È stato uno shock! – ammette -. Si parlava la stessa lingua, ma tutto il resto era molto diverso. Per fortuna c’erano due formatori che erano stati in Africa, tra cui padre Pedro Zilli, che sarebbe poi diventato vescovo di Bafatá, nel mio Paese. E per fortuna che l’anno successivo sono arrivati altri due dalla Guinea-Bissau».

Anche gli studi di teologia in Italia rappresentano un periodo non semplice. Chiede allora di poter avere un tempo di discernimento. «Tornato in Guinea-Bissau, mi hanno chiesto di aiutare nella casa regionale del Pime e nei fine settimana andavo in una parrocchia, dove c’erano alcuni fidei donum angolani che lavoravano molto bene. Grazie a loro sono tornato nel seminario di Monza molto più convinto».

Ordinato nel 2010, padre Gaudêncio parte per la Papua Nuova Guinea nel 2013. Pure qui lo shock culturale è forte, anche se – pur essendo un mondo geograficamente così distante – le similitudini con l’Africa sono più grandi. «Il senso di comunità, ad esempio, è molto forte – spiega il missionario -. La mia prima missione è stata quella di Watuluma sull’isola di Goodenough, dove sono presenti sia i padri del Pime che le missionarie dell’Immacolata che si occupano della parrocchia, delle scuole e dell’ospedale. L’isola non è facile da raggiungere e non ci sono mezzi di comunicazione, neppure i telefoni. L’unico collegamento è garantito dall’antenna installata dalle suore nella scuola secondaria. Passavo molto tempo con gli studenti e con la gente dei villaggi. Sono accoglienti e hanno una struttura sociale fondata sulla famiglia allargata che è simile a quella africana».

Le differenze, però, non mancano e chiedono, pure qui, grande capacità di adattamento e grande impegno: «Molte persone hanno una fede profonda, ma poi vivono alcuni aspetti culturali chiaramente in contrasto con il cristianesimo senza percepirne la contraddizione», riflette padre Gaudêncio, che fa riferimento soprattutto alle pratiche di stregoneria ancora molto diffuse tra i tanti popoli che compongono il ricchissimo mosaico umano della Papua Nuova Guinea. Il Paese, infatti, custodisce una ricchezza di genti, lingue e culture come nessun altro al mondo. Sarebbero più di 800 quelle parlate da comunità che per secoli – e in molti casi ancora oggi – hanno vissuto nel completo isolamento sulle oltre 600 isole o sulle impervie montagne dell’isola principale.

«Un altro aspetto con cui è difficile confrontarsi è quello della violenza – continua padre Gaudêncio -. Si tratta di popoli guerrieri che facilmente ricorrono alla forza e sempre più alle armi per risolvere le controversie. È difficile incoraggiare il dialogo e la riconciliazione, anche se la Chiesa è rispettata e in alcuni contesti ha contribui­to a promuovere un cambiamento di mentalità».

Il problema resta molto sentito anche nei contesti urbani e, in particolare, in una grande città come Port Moresby, che è considerata la più pericolosa del Pacifico. Nello specifico, però, la violenza è legata a gruppi criminali o a singoli che ne hanno fatto un mezzo di sussistenza. Anche la casa parrocchiale, del resto, non è stata risparmiata e porta ancora oggi i segni dei colpi d’ascia con cui i banditi hanno abbattuto la porta, poco prima che padre Gaudêncio vi si trasferisse. «Da quando sono arrivato qui, non sono ancora venuti a trovarmi! – scherza -. Sono io che vado a trovare loro!». Una delle sue attività, infatti, consiste nel far visita alle famiglie che vivono tutt’intorno alla parrocchia, dove ci sono anche diversi insediamenti informali e illegali. Li chiamano settlement, e sono costituiti da abitazioni precarie costruite da persone o famiglie che arrivano dalle zone rurali o da altre isole in cerca di un lavoro e di una vita migliore.

La città, però, spesso non offre quello che promette. Il tasso di disoccupazione è altissimo: moltissime persone vivono di espedienti, tanti giovani finiscono nelle reti della criminalità o dello spaccio, mentre i bambini vanno a ingrossare il fenomeno degli street children. Papa Francesco ha voluto incontrare alcuni di loro che vengono seguiti dall’arcidiocesi di Port Moresby. Si tratta, spesso, di figli di famiglie disgregate o disfunzionali, dove non c’è un adulto che si prende cura di loro e non c’è una comunità come al villaggio. Padre Gaudêncio cerca di fare visita a tutti, di creare legami e di offrire punti di riferimento, come la scuola della parrocchia o le attività per i giovani. Sono piccoli segni, ma importanti e concreti, che mirano a costruire un senso di comunità anche e soprattutto a partire dalla fede, in cui ciascuno si possa riconoscere e tutti siano stimolati a sostenersi reciprocamente.