Da quando l’anno scorso ha dovuto abbandonare la cattedrale di Loikaw a causa dei combattimenti, monsignor Celso Ba Shwe vive con la sua gente nella foresta. «La mia forza sono loro: la nostra Chiesa è più viva che mai»
Sfollata tra gli sfollati. È la condizione della Chiesa birmana dopo oltre tre anni di guerra civile, che secondo gli ultimi dati delle Nazioni Unite ha provocato la morte di oltre 50 mila persone. E uno dei suoi volti più significativi oggi è quello di monsignor Celso Ba Shwe, 60 anni, il vescovo di Loikaw nello Stato Kayah, una delle diocesi del Paese che furono i missionari del Pime a fondare. L’abbiamo incontrato a Roma, qualche settimana fa, al corso di formazione per i vescovi di recente nomina organizzato ogni anno dal Dicastero per l’evangelizzazione. Ma dal novembre dello scorso anno, lui stesso non può abitare nel complesso della cattedrale di Cristo Re, occupato dall’esercito: vive con i rifugiati interni dello Stato Kayah, le cui abitazioni – perlopiù tende e alloggi di fortuna in bambù – di recente sono state anche spazzate via dalle piogge portate dal tifone Yagi.
«Nessuno vive più a Loikaw – racconta il vescovo -. La maggior parte degli edifici sono stati bruciati e distrutti, soprattutto nelle aree cristiane. In molte parti della città non si può tornare anche a causa delle mine antiuomo e degli ordigni inesplosi. Solo i membri delle Pdf tornano per cercare di rintracciare le proprie famiglie, ma anche per loro è pericoloso». Il riferimento è alle Forze di difesa popolare (People’s Defence Forces, Pdf), descritte come il braccio armato del governo di unità nazionale in esilio. Nate nell’aprile 2021 – dopo il colpo di Stato militare che ha portato al conflitto civile – sono composte da giovani e giovanissimi, anche cristiani, che prima della guerra, in tutto lo Stato Kayah, erano oltre 90 mila, su una popolazione di 350 mila abitanti.
«Stanno combattendo per il loro futuro e la loro libertà – commenta il vescovo -. Sono stati testimoni del progresso democratico durante gli anni di Aung San Suu Kyi tra il 2015 e il 2020. Ora i giovani sanno che esiste uno spazio in cui possono esprimere le loro libertà, sono convinti di lottare per la giustizia». Tuttavia, continua il presule, «anche i giovani sono consapevoli che la guerra non è la soluzione per ottenere uno Stato democratico. Abbiamo bisogno del dialogo. Quello che vuole e che chiede la Chiesa è che le Pdf si presentino come un gruppo unito. Un giorno forse accadrà. Per adesso è ancora molto difficile».
L’idea di uno Stato federale in Myanmar è sempre sullo sfondo, ma complicata dal fatto che, nei territori liberati dall’esercito, le milizie etniche (gruppi armati che, a differenza delle Pdf, combattono contro il governo centrale dai tempi dell’indipendenza dall’impero britannico nel 1948) hanno dato vita ad amministrazioni in contrasto con la volontà della popolazione civile. «Nello Stato Kayah, almeno 600 giovani sono già morti nei combattimenti», racconta con tristezza monsignor Ba Shwe (nella foto in basso), originario del villaggio di Moblo. «Eppure le famiglie sostengono le Pdf: nei campi per sfollati a molte persone manca il cibo, ma tutti mettono qualcosa da parte per i combattenti. Sono orgogliosi dei loro figli e pregano per il loro successo e la loro sicurezza».
La comunità cristiana di Loikaw è sparpagliata in 200 campi profughi nella foresta, dove secondo dati dell’anno scorso si trovano complessivamente circa 150mila persone. «Vivono lontano dai villaggi, nelle aree remote dove non c’è conflitto», dice il vescovo. Ma si corregge subito: «Non possiamo davvero dire che non ci sia conflitto, perché un bombardamento o un attacco di artiglieria potrebbe arrivare in qualunque momento».
«Le persone dipendono dalle donazioni internazionali e dalla bontà dei residenti locali che le ospitano. Alcuni riescono ad avere in prestito della terra per far crescere riso o verdure. Ma è sempre rischioso, chiunque può essere colpito dagli spari dell’esercito in qualunque momento». I bambini vivono la situazione più drammatica. A volte anche ragazzi di 12 o 14 anni si uniscono alla lotta armata. «Tra la pandemia e la guerra civile, alcuni non vanno a scuola da cinque anni», continua ancora monsignor Celso, che è stato per tre anni amministratore apostolico della diocesi prima di essere ordinato vescovo il 29 giugno 2023.
Nell’ultimo anno ha sostenuto la creazione di piccole scuole informali tra gli sfollati nel tentativo di formare la generazione che dovrà ricostruire il Paese: «Siccome temiamo bombardamenti dei militari sui luoghi in cui si riuniscono molte persone, dividiamo le classi in posti diversi, tra tende e capanne nella foresta. I bambini hanno imparato a guardare in alto per vedere se arrivano bombe. Se scorgono un jet, sanno che devono correre da un’altra parte. Studiano nel pericolo: come fanno, insegnanti e studenti, a concentrarsi?».
Mancano il riso e l’acqua (raccolta a chilometri di distanza) e una decina di campi profughi sono stati portati via dalle alluvioni causate dal tifone Yagi che a settembre in Myanmar ha ucciso almeno 200 persone. Eppure questo vescovo racconta la vita della sua comunità con il sorriso: «La mia forza sono le persone, mi danno coraggio», ci spiega. «Dopo essersi sistemate nei campi hanno cominciato a chiedere: “Dove sono i nostri luoghi di culto? Vogliamo costruire una chiesa, vescovo, può aiutarci?”. Ora quasi in ogni campo c’è un spazio per pregare segnalato da una piccola croce. È una Chiesa nella natura, è molto bello».
La cattedrale di Loikaw – che ospitava circa 70 persone tra religiosi e persone impossibilitate a fuggire, soprattutto anziani e disabili – era assediata da centinaia di soldati da due settimane quando nel novembre 2023 monsignor Ba Shwe è stato costretto ad abbandonarla. «A dicembre siamo tornati, ma abbiamo preso solo i registri dei battesimi, con cui oggi i sacerdoti cercano le persone della propria parrocchia tra gli sfollati». Il resto è andato tutto perduto. Perfino le tombe all’interno della cattedrale sono state dissotterrate, probabilmente perché i militari temevano vi fossero nascoste armi.
«Sono un vescovo senza cattedrale, ma sono felice – spiega -. Quando sono scappato da Loikaw, molte persone mi hanno offerto di andare a Taunggyi o in altri posti sicuri dove non ci sono combattimenti. Ma come potrei lasciare la mia gente? Devo andare dov’è il mio gregge. Le persone non hanno la chiesa, ma hanno i loro luoghi per pregare. È un’esperienza che, con tutte le sue difficoltà, mi ricorda la vita dei primi cristiani. Molti mi chiedono: “Vescovo, quando torniamo alla cattedrale?”. Io rispondo che la Chiesa non è un edificio. Quando le persone stanno insieme, si prendono cura l’uno degli altri, quando si amano: lì c’è la Chiesa». Una comunità rinata nella tragedia della guerra: «I parroci e le suore ora si dedicano con più forza alla popolazione», continua monsignor Ba Shwe. «In alcuni campi profughi non c’erano catechisti. Ma chiunque sapesse guidare la preghiera o leggere il Vangelo e le Scritture è diventato un nuovo evangelizzatore».
Anche la Caritas di Loikaw resta attiva: interviene nei casi più urgenti, quando le persone hanno finito il cibo o non hanno più denaro. «Non riusciamo a darci la struttura di una ong, ma siamo sempre vicino alla gente, con una clinica mobile per le visite mediche e con un gruppo di sostegno per coloro che sono più fortemente traumatizzati. Le suore, soprattutto, stanno vicino a chi soffre. E così raggiungiamo quelli che le agenzie internazionali nelle aree remote non riescono a raggiungere».
«Ci sono un sacco di sfide e di difficoltà, ma Dio ci sta aiutando», sostiene convinto monsignor Ba Shwe. «Quando mi dicono: “Vescovo, non abbiamo riso per i bambini”, arriva sempre qualcun altro che mi telefona per offrire aiuto. Quello che abbiamo non è abbastanza, ma agiamo un poco alla volta».
DONA ORA
Dall’inizio del conflitto la Fondazione Pime sostiene le comunità birmane attraverso il “Fondo S145 Emergenza Myanmar”. Quest’iniziativa nelle ultime settimane ha offerto sostegno anche per i nuovi gravi problemi creati tra gli sfollati dal tifone Yagi. È possibile effettuare una donazione specifica a questo fondo attraverso il sito dona.centropime.org.