Svizzera-Nigeria: l’arte africana torna a casa?

Svizzera-Nigeria: l’arte africana torna a casa?

Una mostra dedicata al Regno di Benin, in Nigeria, presso il Museo Rietberg di Zurigo, pone il tema dei saccheggi avvenuti in epoca coloniale e della restituzione delle opere. Che non hanno solo una valenza artistica ma spesso sono oggetti religiosi

Lagos, Nigeria, 15 gennaio 1977. È la giornata inaugurale del FESTAC 77, il secondo Festival mondiale delle arti e della cultura nera africana. Da mesi, gli organizzatori bussano alle porte del British Museum di Londra, dove è conservata una maschera in avorio della regina Idia, rubata dai soldati inglesi a Benin City nel 1897 nel corso di un saccheggio. Vorrebbero averla in prestito per la durata del Festival: FESTAC 77 è un evento culturale importante e la maschera rappresenta un legame con il passato e con la cultura di un popolo – quello del Regno del Benin (da non confondere con la vicina Repubblica del Benin) – vittima delle violenze dei colonizzatori. Ma è anche un oggetto con un significato religioso. Lo sforzo è vano: i responsabili dell’istituzione britannica sono inamovibili nella loro scelta di non concedere il prestito.

La vicenda della maschera di Idia è solo un tassello di un lungo e lento processo iniziato dopo l’indipendenza della Nigeria nel 1960 per la restituzione delle opere d’arte presenti nei musei europei. Solo da qualche anno si stanno vedendo i primi risultati: vari studiosi occidentali e curatori di musei hanno cominciato ad avere uno sguardo differente verso le loro collezioni di arte africana. Dopo il rapporto di Felwine Sarr e di Bénédicte Savoy del 2018, commissionato in Francia dal presidente Emmanuel Macron, la restituzione di alcuni oggetti sottratti agli africani durante l’era coloniale è diventata per la prima volta realtà.

In quest’ottica si inquadra anche l’interessante mostra “In dialogo con il Benin: arte, colonialismo, restituzione” del Museo Rietberg di Zurigo, che resterà aperta fino al 16 febbraio 2025. Curata da una squadra di quattro curatrici – la nigeriana Josephine Ebiuwa Abbe, la svizzero-nigeriana Solange Mbanefo, le svizzere Michaela Oberhofer ed Esther Tisa Francini – è un tuffo nel passato dell’antico Regno del Benin, un’entità importante che nel XV secolo arrivò a occupare buona parte del territorio dell’attuale Nigeria. I contatti commerciali con i portoghesi, ai quali vendevano schiavi in cambio di armi da fuoco, rafforzò questo Regno, guidato da un sovrano chiamato oba , che esiste tuttora come figura di rilievo culturale, religioso e sociale).

Furono le ambizioni coloniali britanniche nel XIX secolo a mettere fine alla sua storia secolare. Particolarmente violenti furono la distruzione e il saccheggio di Benin City nel 1897, con la devastazione del palazzo reale, dal quale le truppe prelevarono manufatti preziosi in avorio, bronzo e ottone. Buona parte di quelli che poi diventarono famosi come “i bronzi del Benin” finirono al British Museum di Londra, il resto fu venduto sul mercato internazionale dell’arte.

La mostra al Museo Rietberg non colpisce per la quantità di manufatti esposti, ma per l’approccio decisamente innovativo. Si tratta di 16 oggetti appartenenti alle collezioni del Rietberg stesso – che è il principale museo di arte delle culture extraeuropee in Svizzera – e di alcuni prestiti dal Museo Storico di Berna e dal Museo di Etnografia di Neuchâtel. Le opere antiche sono contestualizzate nel loro utilizzo: come un’icona in una chiesa è oggetto religioso oltre che artistico, così maschere, statue e monili del Regno di Benin potevano essere indossati o collocati in un altare per il culto. Alcune foto aiutano a capire l’utilizzo. Poi, nel display sono presenti anche oggetti contemporanei che richiamano la tradizione, a dimostrazione della vitalità della produzione attuale. A Benin City è infatti presente un distretto creativo, con artigiani e artisti, fortemente voluto dal MOWAA (Museum of West African Art), un’istituzione moderna che inaugurerà la sua prima sezione aperta al pubblico nel novembre prossimo. È una bella sorpresa per il visitatore la ricostruzione, frutto di un lungo lavoro di ricerca, della storia di alcuni degli oggetti presentati. È raro che un museo occidentale racconti come è giunto in possesso di un’opera di origine extraeuropea. Qui invece si scopre, per esempio, che la testa di bronzo dell’oba Osemwende, Uhunmwu Elao, risalente al tardo XVI secolo, era stata commissionata dal figlio del re defunto per onorare il padre ed era collocata nell’Aru erha, il tempio del palazzo reale dove e veniva celebrato il culto collettivo degli oba defunti, che serviva a mantenere il legame fra il mondo dei vivi e quello dei morti. Poi nel 1897, con il saccheggio del palazzo, questo manufatto finì nelle mani del commerciante d’arte londinese W.D. Webster, che lo vendette nella sua casa d’aste. Nel 1899 la testa dell’oba risulta nei registri del Museo d’arte di Basilea che dal 2020 la espone nella mostra permanente Memory, con l’obiettivo di coinvolgere il pubblico sul tema della restituzione. Varie opere presentate nella mostra al Rietberg, fra cui anche questa, sono contrassegnate sui pannelli esplicativi con un bollino rosso. «Indica che è in corso un dialogo per una possibile restituzione – spiega Esther Tisa -. Il nostro museo, creato nel 1952, è comunale: non possiamo decidere autonomamente di rendere le opere alla Nigeria, è la città di Zurigo che può farlo».

Il Museo Rietberg rientra nell’Iniziativa Benin Svizzera, voluta dall’Ufficio federale della cultura nel 2020. Le due curatrici Tisa e Oberhofer sono a capo di un team che coinvolge otto musei elvetici e alcuni studiosi nigeriani sugli oggetti del Benin presenti nelle collezioni. Insieme si affrontano le tematiche storiche e culturali, e non solo. In ballo ci sono argomenti come l’ingiustizia coloniale, l’identità, la possibile restituzione. Non si tratta di svuotare i musei occidentali di tutta l’arte africana. «Qualcosa dovrebbe restare qui per raccontare la storia del Benin – puntualizza Tisa -. Altre soluzioni possono essere la restituzione o prestiti a lungo termine».

La Nigeria è pronta ad accogliere le opere d’arte, offrendo spazi adeguati e adatti alla conservazione? «In Nigeria ci sono oltre 50 musei, a cui a breve si aggiungerà il MOWAA. Dobbiamo però tenere presente che l’idea di museo è un concetto europeo. I primi musei risalgono agli anni Cinquanta, in epoca coloniale. Anche in Senegal, Camerun, Costa d’Avorio – colonizzati dalla Francia – i musei sono stati istituiti dagli occidentali negli anni Trenta e Quaranta», aggiunge Tisa: «Alcuni oggetti che a noi colpiscono per il loro valore artistico ed estetico in Africa hanno tuttora una valenza religiosa. Per esempio, il Rietberg ha fatto un progetto collaborativo con il Camerun e alcune delle nostre opere provenienti da questo Paese sono ritornate per essere usate durante rituali e festività. Questa è l’idea di living museum, museo vivente, un concetto diverso di museo».

In un’intervista rilasciata alla BBC, Olugbile Holloway, responsabile della Commissione nigeriana per i musei e monumenti, spiega così il fatto che i musei del suo Paese siano poco frequentati dalla gente: «Le persone non sono interessate a entrare in un palazzo senza vita. Quello che i bianchi o gli occidentali chiamano manufatto artistico, per noi è un oggetto sacro. Sento che la ricchezza racchiusa in questi oggetti potrebbe essere compresa se mostrati come erano usati originariamente».

È un tema complesso e destinato a far discutere adesso che alcune opere stanno riprendendo, o riprenderanno nei prossimi anni, la via verso i musei africani. La mostra sul Benin al Rietberg aiuta il visitatore a comprendere il punto di vista dell’altro. Una serie di contributi video arricchiscono infatti il percorso, offrendo l’opinione di studiosi, artisti, docenti universitari nigeriani.

Nella società nigeriana è ancora vivo il dolore per la perdita di questo patrimonio. Con la distruzione del Regno di Benin e i conseguenti saccheggi, gli inglesi hanno cercato di cancellare l’esistenza di un popolo portatore di una storia, degna di rispetto quanto la nostra, relegandolo al servizio del loro progetto di sfruttamento coloniale. In un video, Josephine Ebiuwa Abbe, docente associata di Teatro all’università di Benin City, recita dei canti funebri in onore dell’oba Ovonramwen, mandato in esilio dagli inglesi dopo la caduta del regno. E spiega: «Il significato di questi oggetti per me è il racconto che fanno della mia identità e della mia storia. Mi riportano ai miei antenati e a quanto mio padre mi ha raccontato, e mio nonno ha raccontato a mio padre. Provano l’esistenza dei miei antenati prima di me». Il colonialismo ha spesso cercato di cancellare la cultura dell’altro per asservirlo meglio. È ormai tempo di cambiare prospettiva.