Sono trentadue in sette diverse comunità le Missionarie dell’Immacolata
in Papua Nuova Guinea. Una presenza laboriosa e preziosa, fatta di cura, formazione, lavoro pastorale e attenzione alle persone più vulnerabili
Ci sono voluti 170 anni perché qualcuno legato al Pime provasse a rimettere piede sull’isola di Woodlark, dove nel 1855 venne ucciso il primo martire dell’Istituto, padre Giovanni Mazzucconi. A farlo, sono state le Missionarie dell’Immacolata che a gennaio 2025 riusciranno finalmente ad aprire un dispensario in questo luogo remotissimo della Papua Nuova Guinea. Una piccola isola nel mezzo del Pacifico tuttora estremamente difficile da raggiungere, a diversi giorni di barca da quella principale dove si trova la capitale Port Moresby.
«Siamo molto felici e fiere», dice suor Nomita, indiana, che è responsabile della pastorale sanitaria della diocesi di Alotau-Sideia, che copre un vasto arcipelago. Non è stato facile e c’è voluto molto tempo. Le popolazioni locali purtroppo sono tutt’altro che accoglienti, ma oggi questo è dovuto alla presenza di gruppi cristiani fondamentalisti e anti cattolici. Questi ultimi sono al massimo una ventina e non hanno vita facile. «Eppure – sottolinea suor Nomita che è in Papua Nuova Guinea da 13 anni e segue i 12 centri sanitari della diocesi, potendo contare solo su infermieri – i rari cattolici ci dicono sempre che Mazzucconi continua a benedirli!». Con lei collabora un’altra missionaria dell’Immacolata, suor Vimala, indiana, da 18 anni nel Paese. Attualmente è responsabile della pastorale dell’educazione: «La diocesi gestisce circa 160 tra asili e scuole primarie, più due secondarie e quattro professionali, senza un vero budget. E il governo non garantisce regolarmente i propri fondi. Eppure su molte isole, specialmente le più remote, l’educazione cattolica è l’unica disponibile per i bambini».
Quello di Woodlark è solo un esempio – l’ultimo – del grande impegno delle Missionarie dell’Immacolata in Papua Nuova Guinea, dove arrivarono nel 1988. Sette anni prima, nel 1981, anche il Pime aveva deciso di rilanciare una presenza in quella che era stata la sua prima missione. Di nuovo, missionari e missionarie si mettevano al servizio di popolazioni che ancora oggi vivono spesso in condizioni di grande isolamento, povertà e abbandono.
Le prime due religiose a “sbarcare” letteralmente nel Paese sono state suor Silvana Lobo e suor Elizabeth Joseph, che vi giunsero via mare da Bombay (oggi Mumbai) in India. Da allora le missionarie hanno moltiplicato sforzi e presenze sino ad arrivare attualmente a sette comunità con trentadue suore (16 indiane, 10 papuane, 3 bangladesi, 2 brasiliane e 1 italiana), impegnate in vari campi e in diverse diocesi, sia nella pastorale che in ambito educativo, sanitario e della promozione umana, con una particolare attenzione per il mondo femminile.
È un’altra isola, quella di Goodenough, a rappresentare oggi il cuore dell’impegno sia delle suore che dei missionari del Pime. È qui, infatti, che sorge la missione di Watuluma, la più antica e “strutturata”, con parrocchia, ospedale, un ciclo di scuole che va dalla materna alle superiori e un istituto professionale. Accanto a padre Prakasa Nallamelli, indiano, e padre Peter Saw, birmano, sei religiose, divise in due comunità, portano avanti un lavoro enorme sia dal punto di vista educativo che sanitario. Nel compound della scuola superiore c’è anche l’unica antenna che consente un collegamento via Internet con il resto del mondo. Altrimenti Goodenough – che si trova a circa un giorno di barca da Alotau quando l’oceano lo consente – sarebbe ancora oggi completamente isolata da tutti i punti di vista.
All’altro capo del Paese, al confine con l’Indonesia – dove Papa Francesco ha fatto, lo scorso settembre, una visita che rimarrà nella storia – altre quattro missionarie dell’Immacolata – Mary, Francisca e Anju, indiane, e Jane, brasiliana – garantiscono un “presidio” di fede, ma anche di diritti e dignità in una zona – pure questa! – remotissima, tra oceano e foresta. Qui, nella cittadina di Vanimo, per 25 anni, è stato vescovo Cesare Bonivento del Pime. Ma nonostante l’enorme lavoro fatto, manca tutto.
Suor Anju vi è arrivata tre anni fa per svolgere un lavoro pastorale, che spesso significa raggiungere a piedi le piccole comunità sparse nel profondo della foresta. È sempre sorridente e accogliente con le persone, ma non nasconde le difficoltà: «Non è facile capire la gente, la loro cultura e mentalità. A volte, si rischia di scoraggiarsi. In quei momenti penso che questa è la mia missione, non il mio lavoro. Dobbiamo gettare un seme, che magari darà frutto tra molti anni».
Suor Mary, che con i suoi 68 anni è la veterana della missione e si è sempre occupata di formazione, riflette sul senso della loro presenza: «La gente è semplice, ma ha “fame” di Gesù. Siamo strumenti fragili nelle mani di Dio».
In realtà, la loro presenza qui ha un valore e un impatto molto grandi, anche perché la diocesi può contare solo su 6 preti locali e qualche missionario, e quasi tutto funziona proprio grazie all’impegno delle religiose (anche di altre congregazioni) e dei laici. Suor Francisca, ad esempio, si occupa della sanità: «Abbiamo sette centri sanitari, due in città e gli altri nella foresta, raggiungibili in macchina o a piedi. Non abbiamo medici, ma non ce ne sono neppure nell’unico ospedale di Vanimo. E non ci sono medicine. Spesso il magazzino del governo è vuoto. È molto difficile per la gente curarsi. Questa è una zona ancora estremamente arretrata».
Anche per questo la visita di Papa Francesco lo scorso settembre a Port Moresby, e soprattutto a Vanimo, è stata qualcosa di epocale. «Una vera benedizione! – esclama con emozione suor Jane -. Un dono indimenticabile per la nostra gente semplice, povera e laboriosa, che non ha risparmiato gli sforzi per riceverlo. Quanti sacrifici, notti insonni, generosità dietro quella bellissima domenica! E quanta gioia! Ora rimane la responsabilità di custodire questo dono con rinnovato impegno per il nostro servizio qui».
La visita di Papa Francesco ha incoraggiato anche il lavoro di chi opera in una grande città come Port Moresby, che nasconde, dietro i grandi palazzi e gli ampi viali, sacche di povertà e degrado che colpiscono soprattutto le fasce più vulnerabili della popolazione, in particolare quelle che migrano da altre zone del Paese in cerca di condizioni di vita migliori che spesso non trovano. A Port Moresby, le Missionarie dell’Immacolata hanno la casa provinciale e accolgono in un ostello un gruppo di ragazze provenienti da tutta la Papua Nuova Guinea, per permettere loro di frequentare la scuola secondaria. E aprono al contempo le porte a quelle che desiderano cominciare un cammino vocazionale. La Papua Nuova Guinea, infatti, non è più solo una “terra di missione”, anzi. Sono ormai 17 le missionarie papuane che sono state a loro volta inviate in altri Paesi come Brasile, Bangladesh, Algeria, Camerun, Tunisia e Guinea-Bissau. Un segno importante di condivisione e speranza per il futuro.