Il 10 dicembre a Oslo, il Premio Nobel per la pace viene consegnato ai sopravvissuti delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki: uomini e donne ormai ultraottantenni che non vogliono solo ricordare, ma pensano al mondo di domani. Il commento di padre Alberto Berra, missionario del Pime a Hiroshima. Ascolta anche il nostro PODCAST
AsiaNews – «Non è un riconoscimento sul passato, ma una scelta che guarda alla situazione internazionale di oggi. Dare il Premio Nobel per la pace agli hibakusha, i sopravvissuti dell’atomica, è un appello al mondo che è tornato a parlare dell’uso di questi terribili ordigni». Padre Alberto Berra, missionario italiano del Pime, commenta proprio da Hiroshima la notizia dell’assegnazione del Premio Nobel per la pace 2024 all’associazione Nihon Hidankyo, che riunisce le vittime delle terribili esplosione degli ordini nucleari sganciati dagli Stati Uniti nell’agosto 1945 su Hiroshima e Nagasaki. In Giappone dal 1990, padre Berra svolge da tanti anni il suo ministero proprio nella città segnata dalla prima delle due esplosioni atomiche che 79 anni fa lasciò dietro di sé oltre 148 mila morti, circa il 62% della popolazione, insieme a un’eredità pesantissima di malattie che sarebbero emerse anche dopo molti anni a causa delle radiazioni. Altre 74 mila persone sarebbero poi state uccise tre giorni dopo dalla seconda bomba sganciata su Nagasaki.
Il missionario del Pime ha sentito tante volte gli hibakusha raccontare le proprie storie nel Giardino della pace, il parco adiacente al museo che nel cuore di Hiroshima ricorda quella grande tragedia e dove sorge anche la Genbaku Dome, la cupola del palazzo della fiera fusa dal calore dell’esplosione, divenuta il simbolo dell’esplosione atomica. Tutte le scuole giapponesi visitano il Giardino della pace, fermandosi al monumento a forma di airone che ricorda le migliaia di bambini uccisi il 6 agosto 1945.
«Nelle testimonianze degli hibakusha c’è tutto l’orrore della guerra e delle sue conseguenze – spiega -. Certo, tutte le guerre lasciano dietro di sé morte e distruzione. Ma mai era successo prima in quella forma così straziante e con conseguenze sul corpo che durano nel tempo, per alcuni addirittura ancora oggi, dopo quasi ottant’anni. Sentono di aver ricevuto una missione: essere voce per il mondo».
La loro Associazione Nihon Hidankyo – a cui il Comitato di Oslo ha assegnato oggi il Premio Nobel – è nata nel 1956, undici anni dopo i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. Erano rimasti per anni in silenzio ad affrontare le proprie sofferenze; ma furono gli esperimenti sulla bomba a idrogeno condotti dagli Stati Uniti sull’atollo di Bikini, nelle Isole Marshall, esponendo nuovamente la popolazione locale e i pescatori ai pericoli delle radiazioni, a convincerli che avevano un messaggio da comunicare a tutti.
Secondo le statistiche più recenti del governo giapponese, diffuse nel marzo scorso, sono circa 107mila i sopravvissuti alle due esplosioni tuttora in vita, con un’età media di 85 anni. Sono ormai poche decine a Hiroshima quelli ancora in grado di prestare servizio volontario al Giardino della pace. «Per favore, abolite le armi nucleari mentre siamo ancora vivi», ha dichiarato dopo l’annuncio Toshiyuki Mimaki, capo della Confederazione delle organizzazioni degli hibakusha della prefettura di Hiroshima.
«È un compito che continuano a sentire molto – continua padre Berra -. Qualche mese fa, per esempio, uno di loro, a più di ottant’anni, si è messo a studiare l’inglese per essere in grado di parlare a un numero maggiore di persone che passano da Hiroshima. È davvero una missione verso l’umanità intera».
Ed è un messaggio che Hiroshima vuole continuare a trasmettere. «Anche per la nostra Chiesa – ricorda il missionario del Pime – sono state molto importanti le parole pronunciate nel Giardino della pace da Papa Francesco durante il suo viaggio in Giappone del 2019. Quando ha detto con chiarezza che a essere immorale non è solo l’uso delle armi atomiche, ma anche il loro possesso. E questo Nobel in qualche modo è anche per noi un’occasione per ripeterlo».
Proprio in questa direzione va un’iniziativa promossa dal vescovo di Hiroshima che vede insieme oggi le comunità cattoliche locali e alcune diocesi degli Stati Uniti. «Si chiama Partnership per un mondo senza armi nucleari – racconta padre Berra -. È un appello lanciato insieme dalle diocesi di Hiroshima e Nagasaki e da quelle di Santa Fe nel New Mexico e Seattle nello Stato di Washington, quelle cioè dei luoghi dove avvengono i test nucleari dell’esercito americano. Un modo per raccogliere il triplice invito di Francesco a ricordare le vittime di ormai quasi 80 anni fa, camminare insieme verso un mondo senza armi nucleari e proteggere le generazioni di domani».