Esce in una nuova traduzione italiana il romanzo “Nevrosi” di Tsitsi Dangarembga, primo romanzo scritto in inglese da una scrittrice nera dello Zimbabwe che dà voce alle aspirazioni delle donne nella società patriarcale di quella che era ancora la Rhodesia meridionale
Un’adolescente povera che muore dalla voglia di istruirsi e diventare indipendente. Una famiglia tradizionale patriarcale in cui a comandare è lo zio che ha studiato ed è diventato ricco. Il disagio dei cugini emigrati per un periodo in Inghilterra e incapaci di riallinearsi ai valori tradizionali. Il romanzo “Nevrosi” di Tsitsi Dangarembga non contiene una, ma molte storie. Intreccia i temi della letteratura postcoloniale e aiuta a capire il razzismo e il sessismo nel Paese d’origine dell’autrice, l’attuale Zimbabwe. È scritto con una prosa amabile, che rende la lettura piacevole. Per tutti questi motivi “Nevrosi”, primo romanzo scritto in inglese da una scrittrice nera dello Zimbabwe, continua a far parlare di sé. Pubblicato nel 1988, viene ora riproposto in una nuova traduzione italiana da Pidgin Edizioni. Per quanto lo Zimbabwe non sia più quello di trentasei anni fa, il libro merita di essere letto. Nel 2018, la BBC lo ha inserito nella lista dei 100 libri che hanno plasmato la storia del mondo. Fra i tanti riconoscimenti, nel 2021 Dangarembga ha ottenuto il Premio per la pace alla Fiera del libro di Francoforte.
La voce narrante è quella di Tambudzai, detta Tambu, figlia di Jeremiah, fratello scapestrato di Babamukuru, il capofamiglia intellettuale che ha studiato, vive in una bella casa e fa il preside presso una missione. È il 1968. Tambu con la madre e le sorelle è condannata a una vita faticosa. Nella loro modesta casa di campagna, tocca a lei trasportare l’acqua dal fiume e tentare di racimolare soldi per pagare la retta della scuola. Babamukuru ha deciso di finanziare gli studi solo a Nhamo, il fratello maggiore di Tambu, che come maschio vanta questo diritto e lo fa pesare con arroganza sulla sorella. La sorte, però, riserva una sorpresa per Tambu: il fratello d’improvviso muore e Babamukuru decide di offrire a lei la possibilità di studiare presso la missione. Nella casa dello zio e della zia Maiguru, la ragazzina sperimenta che cosa significhi essere ricchi e avere uno stile di vita occidentale, con cibo abbondante a tavola ogni giorno e non solo nelle feste, il porridge a colazione e vestiti eleganti e puliti. Il cambiamento di vita la riavvicina alla cugina coetanea Nyasha che da quando è tornata dall’Inghilterra, dove ha vissuto con i genitori per qualche anno, è una disadattata. Non si esprime più in lingua shona, ma solo in inglese. Non accetta più le regole sociali della famiglia, contesta il padre e vorrebbe vivere come i bianchi. Anche suo fratello Chido è diventato come lei, ma come maschio è avvantaggiato. Può godere di tutte le libertà che alla sorella non sono concesse. Tambudzai all’inizio si schiera con gli zii: non riesce a capire come mai Nyasha si rivolti contro la fortuna che si ritrova, ovvero il privilegio di una vita di lusso. Poco alla volta, però, l’eroe e benefattore Babamukuru finisce per cadere dal piedistallo anche agli occhi della nipote rivelandosi per quello che è: un capofamiglia dispotico e maschilista, che non è in grado di gestire i problemi con la figlia e che viene contestato anche dalla moglie sempre remissiva. Tambu si sente sempre più lontana anche dalla famiglia d’origine e simpatizza con la zia Lucia, la sorella minore di sua madre, che scatena una crisi del clan. Lucia è l’unica che tiene testa a Babamukuru, che non esita a dire «quella lì è proprio un uomo». Intanto, la strada di Tambu è segnata da un successo inatteso.
Quella che Tsitsi Dangarembga ci racconta è una storia in cui il confronto fra lo stile di vita tradizionale e i nuovi modelli portati dal colonizzatore provoca una crisi profonda nella società africana. Il sogno di una vita migliore, concessa solo a pochi tramite l’istruzione, è incarnata da Babamukuru, in cui l’inglesità convive con la mentalità patriarcale, che impone al capofamiglia di prendersi cura dei fratelli più poveri e incapaci, come Jeremiah. Il capoclan si illude di poter mettere tutto a posto e si sforza sinceramente di farlo, ma i tempi stanno cambiando. Le donne anche nella Rhodesia meridionale – l’odierno Zimbabwe – stanno alzando la testa: non sono più disposte a subire, vogliono studiare e osano, come Lucia, immaginare una vita libera senza un uomo che le protegga. Il cambiamento non è indolore, come suggerisce il titolo del romanzo. Non è facile conciliare il cristianesimo con la religiosità tradizionale che imputa ogni sfortuna a una maledizione. Non è facile rassegnarsi a essere perennemente poveri, quando si sa che vivere meglio è possibile. E soprattutto non è facile tornare a essere quelli di prima, dopo aver sperimentato lo stile di vita dei bianchi. Questo vale in particolare per le donne e per il loro desiderio di libertà e di istruzione. Pur facendo parte dell’élite nera, Nyasha vive la crisi d’identità che oggi a volte sperimentano le ragazze di seconda generazione in Italia che vorrebbero comportarsi come le coetanee italiane, e non secondo i valori imposti dalla famiglia, che non condividono più. Dangarembga ha il merito di guardare in faccia alla realtà senza cedere alla tentazione di idealizzare la società africana tradizionale come antidoto al sistema dei colonialisti, che in Rhodesia meridionale dal 1965 ha portato a un governo di bianchi razzisti modellato sull’apartheid del Sudafrica di allora e a un lungo e travagliato processo per l’indipendenza, ottenuta nel 1980.
«Volevo scrivere di una ragazza africana in cui molte giovani potessero identificarsi», ha raccontato Tsitsi Dangarembga in un’intervista al Guardian nel 1980. «Ho scelto una contadina: all’epoca il 70 per cento della popolazione era rurale. Ma mentre scrivevo ho letto “L’eunuco femmina” di Germaine Greer (un testo classico della letteratura femminista, ndr). Il che mi ha consentito di criticare quella che ritenevo la mia cultura».
C’è sicuramente qualcosa di Tsitsi nel personaggio di Nyasha. Classe 1959, l’autrice di “Nevrosi” è emigrata con la famiglia in Inghilterra come il suo personaggio, dimenticando la lingua shona. Al suo ritorno in patria, ha dovuto impararla di nuovo in una scuola missionaria. Se all’epoca in cui ha pubblicato “Nevrosi” il passato coloniale con le sue ferite era ancora recente, a distanza di 44 anni dall’indipendenza lo Zimbabwe resta un Paese travagliato, dove chi critica o protesta contro il governo rischia la prigione. È successo anche Tsitsi Dangarembga, arrestata ad Harare nel luglio 2020 per aver partecipato a una manifestazione contro la corruzione, e poi liberata. Mugabe non c’è più dal 2017, ma lo Zimbabwe non ha ancora risolto i suoi problemi.