Il 21 dicembre, a Carugate, la promessa definitiva di Alessandro Albani e Claudio Scotti, che diventano missionari laici. E qui raccontano le loro storie
Un lavoro – prendersi cura dei bambini con disabilità – nato già come «una vocazione». E che poi si è trasformato in un pezzo centrale di una scelta di vita più grande: quella di diventare missionario laico del Pime. È la storia di Alessandro Albani, 33enne nato e cresciuto a Carugate, che dopo un lungo percorso tra la verde Brianza, l’Asia e l’Africa, il prossimo 21 dicembre tornerà nella sua parrocchia di origine, quella di Sant’Andrea apostolo, per pronunciare, insieme a Claudio Scotti, la promessa definitiva. E donarsi alla missione come “fratello”.
«Il mio cammino è iniziato in un certo senso già da adolescente, in seguito alle esperienze di volontariato con la fondazione Don Gnocchi a fianco dei bambini in riabilitazione – racconta Alessandro -. Fin da allora capii che quello era il lavoro che volevo fare. Dopo il liceo scientifico, quindi, mi iscrissi alla laurea triennale in Terapia della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, mentre nel tempo libero continuavo a frequentare l’oratorio, che ha avuto un ruolo centrale nella mia storia di fede. Proprio grazie all’iniziativa del coadiutore di allora, don Simone Arosio, dieci anni fa partii con un gruppo di giovani per un’esperienza estiva di un mese in Thailandia, per conoscere la missione del nostro concittadino padre Valerio Sala, del Pime».
Fu un’occasione che diede il via a una riflessione profonda e a un percorso spirituale, affiancato prima dallo stesso don Simone e poi dal missionario del Pime padre Enrico Fidanza: «A lui spiegai che percepivo il richiamo alla missione, ma non mi sentivo chiamato a diventare sacerdote. In più, non volevo rinunciare a una professione che per me era già l’espressione di una vocazione. E padre Enrico mi spiegò che esistono anche i fratelli laici, per i quali il principale strumento di evangelizzazione non è il ministero, ma la testimonianza di vita, in particolare proprio nella dimensione professionale». Il giovane iniziò così un periodo di discernimento con il Pime – mentre continuava a lavorare, a fare il catechista e pure l’allenatore di atletica – finché nel 2017 entrò nel seminario di Monza per due anni di formazione. Un «primo impatto con l’internazionalità», fino alla partenza per l’India – sei mesi tra studio dell’inglese e visita alle missioni – e poi per il Myanmar, con l’inizio del lavoro in una struttura sanitaria pubblica. Arrivarono però prima la pandemia di Covid e, nel febbraio del 2021, il colpo di Stato. Per Alessandro restare divenne impossibile. «La mia nuova meta, per un anno, fu così la fondazione Betlemme a Mouda, in Camerun, a fianco di una ventina di minori con disabilità».
La strada si chiariva sempre di più: «Proposi e ottenni di frequentare il corso di laurea magistrale in Scienze riabilitative e delle professioni sanitarie all’Università Cattolica di Roma, come passo funzionale al rientro in missione». E così, dopo una tesi preparata sul campo quest’estate in Myanmar e la laurea discussa a novembre, per Alessandro è arrivato il momento della promessa, che condividerà con il concittadino Claudio Scotti.
«È davvero una circostanza particolare che due nuovi “fratelli” del Pime siano anche originari della stessa città!», commenta Scotti, che di anni ne ha 53 ed è cresciuto in parrocchia con un altro carugatese, padre Valerio Sala, missionario del Pime in Thailandia e attuale rettore di Casa Madre a Milano. «La mia vocazione, tuttavia, si è manifestata in maniera più evidente in età adulta ed è legata in particolare a un’esperienza fatta in India».
Da giovane, Claudio aveva fatto molti viaggi, incuriosito da altri popoli e culture. «Mi piaceva appoggiarmi a missionari e missionarie, per il loro modo di stare con la gente. Non era solo un lavoro. Era la vita. Questo mi ha permesso di incontrare tante persone e di entrare nella loro quotidianità. E quando tornavo in Italia, mi sentivo arricchito».
Per molti anni, Scotti ha lavorato nel campo della finanza, aveva una fidanzata e molti interessi: «Ero contento, ma non felice», riflette. C’era nel fondo una certa inquietudine che cresceva. «Mi hanno proposto di incontrare un missionario del Pime, padre Francesco Rapacioli, che dopo molti anni in Bangladesh si trovava a Monza come rettore del seminario». Grazie a lui, Claudio ha iniziato un cammino, innanzitutto su se stesso, ma anche un percorso di formazione con l’Associazione laici Pime (Alp). «Sentivo però di voler fare qualcosa di più definitivo». Chiede così un anno di aspettativa che trascorre in India, metà a Pune, nelle missioni del Pime, metà in giro per il Paese dove conosce altre realtà. «È stato un anno di svolta – dice -. Ho passato tanto tempo con me stesso e con Gesù. E ho capito che solo donandomi all’altro in un contesto missionario mi sentivo felice. Ho fatto anche tanta meditazione, e questo mi ha aiutato a fare silenzio, a entrare in me stesso e anche a pregare in modo diverso».
A quel tempo, Claudio aveva già 47 anni e sentiva di non poter tornare indietro. E così ha lasciato il lavoro e iniziato un percorso di formazione: due anni di studi teologici nel seminario di Monza, due in India dove ha seguito alcuni progetti e collaborato con una ong nello slum di Mumbai e poi un anno a Roma per un corso di Management e leadership dell’apostolato.
«Non ho mai pensato di diventare sacerdote – riflette -, non solo per ragioni anagrafiche. Credo che la scelta di essere “fratello” permetta una maggiore vicinanza alla vita della gente. E non toglie nulla alla profondità della fede che è sempre stata una costante del mio percorso di vita, un filo conduttore di tutte le mie scelte». È quello che cercherà di testimoniare ancora e sempre di più, dopo la promessa definitiva, «non tanto con le parole – precisa – ma soprattutto in quello che sarò chiamato a fare»