Satyarthi: «I piccoli schiavi sono figli nostri»

Satyarthi: «I piccoli schiavi sono figli nostri»

L’appello da Milano del premio Nobel indiano nella Giornata mondiale contro la tratta delle persone: «Bisogna fare di più per la lotta alla schiavitù. C’è un reato più grave che privare un bambino dei propri sogni?»

 

«Contro la schiavitù in questi anni abbiamo intrapreso un percorso, ma è ancora troppo lento. E i bambini non possono aspettare». Non gira intorno al problema il Premio Nobel per la pace Kailash Satyarthi. Parla con la consapevolezza di chi di questi minori vittime di un business tra i più redditizi al mondo ne ha liberati più di 83 mila. Ma è il primo a sapere che non basta. E lo ripete in una Sala Alessi di Palazzo Marino, la sede del Comune di Milano, gremita per l’incontro che Mani Tese, il Pime e la Caritas Ambrosiana hanno organizzato in occasione della Giornata mondiale per la lotta contro la tratta degli esseri umani. La Giornata che si celebra oggi, festa di santa Giuseppina Bakhita, l’ex schiava divenuta santa. L’ha voluto papa Francesco a partire dall’anno scorso, raccogliendo un appello lanciato dai religiosi che ai quattri angoli del mondo operano accanto ai nuovi schiavi.

Si citano i numeri del fenomeno: almeno 21 milioni di persone nel mondo (secondo la stima più ottimista), per un giro d’affari di 32 miliardi di dollari l’anno, con donne e bambini come principali vittime. Ed è una macchia nera molto più vicina di quanto si pensi. «C’è anche a Milano e va contrastata – riconosce il sindaco Giuliano Pisapia, presente all’incontro con Satyarthi -. C’è troppa indifferenza sui nuovi schiavi. E invece ciascuno di noi può fare qualcosa».

Il primo passo è proprio prenderne consapevolezza. Ed è da qui che parte il Premio Nobel indiano con il suo intervento. «Voi potete vivere nell’illusione di abitare in un paradiso dove questi fenomeni non esistono – spiega Satyarthi -. Ma indossate scarpe o vestiti senza sapere che sono stati realizzati da bambini schiavi. E lo stesso vale forse per il cioccolato che mangiate o per i tappeti che acquistate».

satyarthi

Racconta le storie di quei bambini l’attivista indiano premiato nel 2014 dal Comitato per il Nobel insieme a Malala. Racconta del piccolo schiavo che in Pakistan cuce palloni da calcio con le mani sanguinanti e non sa più rispondere neppure alla domanda su quale sia il suo sogno («c’è un reato più grave che togliere a un bambino la capacità di sognare?», riflette amaro). Parla dei ragazzi della Costa d’Avorio, costretti a lavorare in condizioni durissime nelle piantagioni di cacao; loro che una tavoletta di cioccolato non solo non l’hanno mai assaggiata, ma non sanno nemmeno come sia. Cita le nuove vittime della tratta dei minori: quelli che spariscono nei conflitti in Siria o in Nigeria, per riemergere magari su un marciapiede.

Ma soprattutto parla di quanto ha imparato battendosi da ormai più di trent’anni per questi piccoli. Ricorda la storia dei primi di loro: di quel papà giunto a bussare alla porta della sua casa di Delhi perché non sapeva a chi rivolgersi per far sì che a sua figlia di 14 anni non toccasse la sua stessa sorte di schiavo. Parla del giorno in cui portò in città per un’udienza in tribunale quei bambini rimasti sempre segregati nel villaggio; e che di fronte alle strade, alle automobili, alla gente «saltellavano liberi come le rane quando si apre il coperchio della scatola». Descrive la loro liberazione come un momento di un momento profondo di verità, «perché abbracciare la libertà è diverso dal parlare di libertà».

Ed è a partire da qui che il discorso di Kailsh Satyarthi ritorna a toccare direttamente anche Milano: «I cinquemila bambini che secondo i dati dell’Europol sono scomparsi in Italia tra i migranti giunti in Italia negli ultimi due anni – commenta – sono una minaccia per tutti. Ma la vinceremo solo se sapremo riconoscere che sono nostri figli». Sì, non sono bambini qualsiasi, ma nostri figli. «In questo mondo tutto ormai è globale – continua il premio Nobel indiano -. Adesso è giunto il momento di globalizzare la compassione. È il messaggio che sta al cuore di ogni religione. E l’unico modo per farlo è cominciare dall’attenzione ai piccoli. Fate sorridere un bambino che non conoscete; capirete che davvero sono tutti nostri figli». Gesto semplice, ma che se preso sul serio può portare lontano.

Conclude proprio con l’appello a fare presto: «I bambini non possono aspettare: dobbiamo sentire l’urgenza dell’impegno per strapparli alla schiavitù». Anche a Milano.