Il trattato fra Corea del Sud e Giappone che pone fine alla questione delle schiave sessuali durante la guerra non soddisfa le sopravvissute e divide i conservatori giapponesi.
Forse stavolta il premier giapponese Shinzo Abe ha commesso un autogol. L’accordo fra Giappone e Corea del Sud, firmato nel dicembre scorso da lui e dalla presidente coreana Park Geun-hye, doveva chiudere per sempre l’annosa questione delle schiave sessuali coreane dell’esercito imperiale giapponese, definite con un eufemismo comfort women (letteralmente “donne di conforto”). Invece, il trattato è stato aspramente criticato dalle sopravvissute coreane, da decenni impegnate a chiedere giustizia, e persino da alcuni sostenitori dello stesso Abe. Domenica scorsa, infatti, a Tokyo vari politici e intellettuali conservatori hanno manifestato per esprimere il loro dissenso.
Sono trascorsi settant’anni dalla fine della guerra, ma molte ferite restano aperte. Non solo in Corea: l’esercito imperiale nipponico ha rapito e costretto giovani donne alla schiavitù sessuale in molte regioni dell’Asia che aveva conquistato. Il 27 gennaio scorso, in occasione della visita dell’imperatore Akihito a Manila, la Lega delle Donne Filippine ha inscenato una protesta per lo stesso motivo. Il New York Times ha riportato la testimonianza di Hilaria Bustamante, 89 anni, che a 16 anni venne prelevata con la forza dai militari, portata in una guarnigione e costretta per 15 mesi a fare da lavandaia e cuoca durante il giorno, mentre alla sera veniva violentata dalle truppe. «Quando mi hanno liberata, ho osato parlarne solo con mia madre. Mi sono vergognata per tutta la vita, ma ora voglio che la gente sappia», ha dichiarato. Su un migliaio di donne filippine schiavizzate e stuprate, secondo i ricercatori, circa una settantina sono ancora vive.
Il numero di donne coinvolte in tutta l’Asia resta controverso: oscilla da 20 mila a 400 mila. Alcune fonti ipotizzano che l’80-90 per cento fossero di nazionalità coreana. L’accordo raggiunto prevede un risarcimento 1 miliardo di yen (oltre 7 milioni 715mila euro), da destinare a una fondazione amministrata dal governo coreano per il sostegno alle ex comfort women ancora in vita. Il premier giapponese ha presentato “le più sincere scuse e rimorso”. In cambio, i giapponesi hanno chiesto che in tutte le sedi internazionali, incluse le Nazioni Unite, si smetta di polemizzare da parte coreana sulla questione. La richiesta forse più bizzarra è che venga rimossa la statua che raffigura una giovane donna coreana, in memoria di tutte le schiave sessuali, che è stata posta nel 2011 nello spazio antistante all’ambasciata giapponese di Seul, dove da decenni si ritrovano le ex comfort women e i loro sostenitori per protestare.
Le scuse di Abe non hanno soddisfatto le donne coreane. E non solo a Seul. Il 6 gennaio scorso, a Tokyo, c’è stata una protesta contro l’accordo da parte di donne coreane e giapponesi. A Seul alcune delle ormai anziane sopravvissute hanno ribadito che il loro dissenso non c’entra con il denaro: quello che volevano ottenere era una dichiarazione di responsabilità legale da parte del governo giapponese per quanto è accaduto e un adeguamento dei libri di testo scolastici nipponici, affinché venga correttamente insegnato alle giovani generazioni quanto è accaduto.
Insomma, le vittime di violenza coreane vogliono che si serbi la memoria e il loro dramma non venga dimenticato. Per quanto i giapponesi si siano profusi in scuse anche in passato, non ci sono state chiare assunzioni di responsabilità. Nel 1994, la lettera di scuse dell’allora primo ministro nipponico Tomiichi Murayama, unitamente al denaro dell’Asian Women’s Fund creato dalle autorità (con soldi pubblici e privati), venne respinta da molte delle ex comfort women coreane, perché i soldi non provenivano direttamente dal governo giapponese, da loro ritenuto il vero colpevole.
D’altronde, anche oggi in Giappone ci sono studiosi e storici negazionisti, che considerano menzogne la testimonianza delle halmoni, le “nonne”, come i coreani affettuosamente chiamano le anziane ex comfort women. Secondo questi giapponesi, le donne non sarebbero state altro che prostitute, che volontariamente prestavano servizio presso i bordelli dell’esercito nipponico. Lo stesso Abe, oggi voglioso di chiudere la questione, nel 2007 aveva dichiarato che non c’erano prove che il governo giapponese avesse tenuto delle schiave sessuali durante la guerra.
Jan Ruff O’Herne, 93 anni, olandese, era una ragazza di vent’anni quando fu portata via dal campo di prigionia in cui si trovava con la sua famiglia e costretta a diventare una schiava sessuale dell’esercito giapponese. Nel 1998 rifiutò il risarcimento offerto dall’Asian Women’s Fund, considerandolo un insulto: come le donne coreane, voleva che i giapponesi riconoscessero le proprie responsabilità. Perché Jan, pur essendo uscita viva da quell’esperienza, non ha più avuto una vita serena: gli incubi degli stupri e della violenza subita l’hanno perseguitata per tutta la vita.