La prima e unica democrazia nella “Grande Cina” è Taiwan. Ma deve resistere alle pressioni di Pechino. Un compito arduo per la nuova presidente Tsai Ing-wen, donna coraggiosa, che si è fatta da sé
Taiwan, una realtà ai margini dei grandi eventi internazionali e dell’interesse dei media, è oggi la prima e l’unica vera democrazia della “Grande Cina”. Per questo bisognerebbe dare più credito e riconoscere più esplicitamente il valore dell’esperienza di quest’isola abitata da 23 milioni di persone.
La “Grande Cina” è composta di quattro realtà politiche autonome, la Repubblica Popolare (con Pechino come capitale); Hong Kong; Macao e Taiwan (con capitale Taipei). Solo quest’ultima, tra difficoltà e sfide enormi, è riuscita ad emanciparsi da un passato coloniale e violento, per approdare alla libertà e alla democrazia. Una democrazia matura, vivace, che deve resistere alle pressioni di Pechino, e che ormai vede con regolarità l’alternanza dei due principali partiti al governo. In una cultura, quella cinese, che tradizionalmente ha relegato le donne a un ruolo subalterno, Taiwan è ora guidata, per la prima volta, da una donna, Tsai Ing-wen.
Tsai, 59 anni, è stata scelta in modo plebiscitario dai suoi connazionali, lo scorso 16 gennaio, sconfiggendo nettamente l’avversario del Partito nazionalista, che aveva governato l’isola dal 1949 (con una parentesi dal 2000 al 2008). Il Partito democratico del progresso, di cui Tsai è leader, conquista per la prima volta la maggioranza dei seggi in Parlamento.
Tsai Ing-wen è davvero una donna capace. Viene dal Sud dell’isola, la roccaforte “indipendentista”, ultima di 11 figli, ha acquisito una formazione internazionale in Gran Bretagna e negli Usa. Sconfitta di misura nel 2012, ha avuto l’umiltà e la forza di non mollare. Pur non avendo un evidente carisma oratorio, sa guadagnare consenso con la sua sincerità e onestà. Non è sposata, e pur non essendo la prima donna politica dell’Asia, è la prima che non proviene da una potente dinastia familiare. Non è moglie, figlia, sorella, nipote o madre di nessuno: è una donna che si è costruita con le sue sole forze, con i suoi soli meriti, proprio come l’isola che ora rappresenta.
Tsai ha scelto come vicepresidente un altro uomo che, come lei, viene dal profondo Sud, da una famiglia modesta e numerosa, e si è fatto strada grazie ai suoi meriti: Chen Chien-jen, ricercatore di epidemiologia di fama internazionale della prestigiosa Accademica Sinica. Grazie alla sua fidanzata, si è convertito da adulto al cattolicesimo. Padre di due figlie, è ora attivamente impegnato nella grande parrocchia gesuitica della Sacra Famiglia di Taipei. Si ispira a Papa Francesco, della cui biografia ha contribuito alla traduzione in cinese, e concepisce se stesso come una manciata di sale nelle mani di Dio per dare sapore e contribuire al benessere del suo Paese. Il vicepresidente Chen si augura di condividere con la Cina, e il resto del mondo, la gioia della libertà e della democrazia. Il mondo, afferma Chen, ha bisogno di pace; e c’è bisogno di pace anche tra Taiwan e la Cina.
Tsai Ing-wen, come il partito che guida, è favorevole dell’indipendenza da Pechino. Tuttavia, per salvaguardare la sicurezza dell’isola da un possibile attacco cinese, ha solennemente dichiarato di proseguire con la politica dello status quo, ovvero il mantenimento della totale autonomia amministrativa, senza però dichiarare formalmente l’indipendenza da Pechino.
Ma Pechino accetterà di dialogare con Tsai, riconoscendo la volontà del popolo di Taiwan? O cercherà in ogni modo di boicottare il suo successo in nome dell’ideologia nazionalista secondo la quale «esiste una sola Cina, e Taiwan è parte di essa»?
Lo “stretto di Taiwan” è considerato un pericoloso punto di tensione per la pace nell’Asia pacifica e per il mondo intero. Esiste tra le due parti un “Accordo del 1992”, in base al quale Cina e Taiwan sostengono che esiste «una sola Cina». Questo non significa che entrambe la concepiscano allo stesso modo.
Negli anni Novanta la tensione ha raggiunto livelli altissimi, a causa delle esercitazioni militari cinesi. Ancora oggi, la Cina ha migliaia di missili puntati su Taiwan, in grado di distruggere l’isola. Nel 2005, Pechino ha approvato una dura legge anti-secessionista, che autorizza la guerra contro Taiwan in tre casi: l’isola proclami l’indipendenza; quest’ultima appaia inevitabile; la riunificazione pacifica appaia impossibile.
Lo scorso 7 novembre, i leader di Taiwan e della Cina si sono incontrati a Singapore per la prima volta dalla creazione della Repubblica Popolare cinese (1 ottobre 1949). A rappresentare Taiwan, c’era naturalmente l’allora presidente Ma Ying-jeou, gradito a Pechino, che ha avuto con la controparte Xi Jinping un incontro dal significato più simbolico che sostanziale. Quest’ultimo ha parlato dell’indipendenza di Taiwan nientemeno che come «la più grande minaccia alla pace». Un altro terreno “minato” è quello dei rapporti con la Santa Sede. Difficile dire se l’ascesa dei nuovi leader di Taiwan – con un vicepresidente esponente di punta del laicato cattolico – influirà in modo significativo nei rapporti con il Vaticano. Per molti anni la questione di Taiwan, dove la nunziatura è affidata a un semplice “Chargé d’affaires”’, è stata pretestuosamente sventolata da Pechino come il principale ostacolo all’accordo Cina-Vaticano. In realtà, le difficoltà maggiori riguardano la questione della libertà della Chiesa e il processo di nomina dei vescovi.
Oggi la nuova leadership taiwanese è più vicina alla sensibilità cattolica, ma è guardata con avversione da Pechino, che teme che le aspirazioni libertarie e democratiche tocchino anche la Cina. L’attuale presidente Xi Jinping ha, infatti, avviato una dura campagna contro la contaminazione dei “valori occidentali”, quali appunto libertà, diritti e democrazia. D’altro canto, però, Pechino potrebbe essere interessata a un accordo con la Santa Sede per indebolire Taiwan, strappandole i rapporti diplomatici con il Vaticano. Ma è giusto considerare Taiwan solo in riferimento al conflitto politico ancora irrisolto con la Cina? La democrazia taiwanese, sul piano politico, culturale e sportivo è vittima di un severo isolamento internazionale imposto da Pechino. Dopo secoli di varie occupazioni militari straniere, Taiwan è, suo malgrado, ancora forzatamente isolata, ostaggio dell’ideologia nazionalista cinese, tanto potente da impedire al mondo intero una qualsiasi pacata discussione sulla sua realtà e identità.
Ma Taiwan non è solo una pedina strategica sullo scacchiere cinese. È una grande realtà democratica, civile, che rispetta i diritti umani e la libertà religiosa. Con le sue proprie forze Taiwan ha aperto una strada e una speranza per la nazione cinese, mentre le due zone ad amministrazione speciale, Hong Kong e Macao, non rappresentano più una speranza. Macao, che storicamente ha avuto un ruolo fondamentale per l’evangelizzazione in Asia orientale, è ora una piccola città monopolizzata dai capitali cinesi e internazionali del gioco d’azzardo. La coscienza civile è anestetizzata e persino la Chiesa cattolica ne subisce la triste influenza.
Hong Kong, invece, ha una forte opinione pubblica, che si è esposta molto nelle manifestazioni della cosiddetta “rivoluzione degli ombrelli”. Ma la Cina ha deciso di “riprendersi Hong Kong” a ogni costo. Il programma di “un Paese-due sistemi” doveva durare almeno cinquanta anni, ma è morto dopo soli 18. La vicenda dei cinque editori di Hong Kong spariti nel nulla nei mesi scorsi – come succede solo nei peggiori regimi fascisti, comunisti e militari – è stata, in un certo senso, il punto di non ritorno. Gli editori stampavano e vendevano libri critici nei confronti del Partito comunista cinese. Libri che andavano a ruba proprio tra i turisti dalla Cina in visita a Hong Kong. E avevano in preparazione un nuovo libro, critico e forse salace, sul presidente Xi Jinping.
Il sequestro degli editori è quanto di peggio la gente di Hong Kong possa temere: sparire nel nulla, nelle mani di agenti cinesi. La gente si è sempre sentita sicura a Hong Kong. Ora, dopo che gli agenti cinesi operano impuniti in città, non lo è più. Chi si è esposto ha paura. Hong Kong sta diventando un deserto culturale e conformista. Solo gli amici di Pechino si affermano nei luoghi del potere mediatico, educativo e politico.
Anche in Cina il rispetto dei diritti umani e della libertà religiosa sta drammaticamente facendo passi indietro. Continua la repressione contro giornalisti, avvocati per i diritti umani, e ogni altro critico del regime. Dal 2009, circa 150 fedeli tibetani si sono dati fuoco per protestare contro la politica oppressiva in Tibet. Ugualmente, le popolazioni uigure della Cina occidentale sono violentemente sottomesse.
Anche i cristiani soffrono. Una campagna che dura ormai da due anni ha portato alla demolizione di più di mille croci e numerose chiese. E soprattutto c’è il triste e inquietante caso di Yu Heping, giovane e coraggioso prete della comunità cattolica sotterranea, trovato morto in circostanze sospette il 7 novembre 2015. C’è la convinzione, da parte di molti, che si tratti di una morte violenta, causata dal suo influente attivismo tra i giovani e in internet. Molti fedeli lo considerano un martire. Ecco perché, in questo scenario, la democrazia di Taiwan e le storie personali di Tsai Ying-wen e di Chen Chien-jen hanno un significato profetico e di speranza per tutta la nazione cinese.