Autobus carichi di frutta e verdura freschi provenienti dall’Etiopia arrivano due volte alla settimana a Gibuti, per essere venduti sui mercati locali. Eppure il più grande Paese del Corno D’Africa sta soffrendo una terribile carestia, con 18 milioni di persone a rischio malnutrizione. Una contraddizione che evidenzia la doppia velocità di una delle economie più in crescita del continente.
Arrivano puntuali a Gibuti due volte alla settimana dall’Etiopia: autobus carichi di frutta e verdura per il mercato locale. “Le consegne sono andate avanti puntualmente anche in questi mesi di carestia”. A confermarcelo è una fonte locale. “Prima gli ortaggi arrivavano via treno, ora sugli autobus, in attesa della linea ferroviaria che collegherà Addis Abeba a Gibuti, che un’azienda cinese sta ultimando”.
L’Etiopia è uno dei Paesi che viene citati per primi quando si parla di land grabbing, ovvero l’ “accaparramento” delle terre in Africa da parte di aziende e governi di altri Paesi. Negli ultimi anni il governo ha “affittato” 2,5 milioni di ettari di terreni agli investitori stranieri: soprattutto indiani ma anche cinesi, arabi e olandesi. Investimenti che in teoria dovrebbero avere ricadute positive in termini di sviluppo locale, eppure le serre dove si coltivano fiori ma anche frutta e verdura sono gli snodi di un commercio che procede parallelo.
Uno degli obiettivi del governo è sviluppare l’agricoltura intensiva per l’esportazione, voce che va ad accrescere il Prodotto interno lordo. L’Etiopia però è una nazione di piccoli agricoltori, l’85 per cento della popolazione è composta da contadini che coltivano piccoli appezzamenti di terra per mantenere le proprie famiglie.
A sfamare la maggior parte della popolazione etiope non è l’agricoltura intensiva, ma quella su piccola scala, famigliare o poco più: “I primi a soffrire la siccità sono stati gli agricoltori e i piccoli produttori, che non hanno accesso all’acqua in modo permanente e che dipendono dall’irrigazione piovana” afferma da Addis Abeba Andrea Bessone, responsabile dei progetti agricoli in Etiopia dell’Associazione internazionale volontari laici (Lvia). “Se gli investimenti fossero stati indirizzati anche nella aree agricole, per esempio creando sistemi irrigui a supporto degli agricoltori, la sicurezza alimentare sarebbe ora meno a rischio”.
Un altro paradosso è che nel giro di due anni l’Etiopia esporterà a Gibuti anche acqua, attraverso un condotto in costruzione a partire dalla città di Adi Ggala, nella Somali Region. E anche all’interno del Paese esistono coltivazioni come quelle per produrre l’olio di palma che richiedono imponenti risorse idriche, in un Paese che lotta da sempre contro la siccità. Olio di palma che viene utilizzato dall’industria alimentare, e quindi coltivato principalmente per l’esportazione.
Nel 2005 il governo etiope ha avviato il programma Productive safety net (Rete di protezione produttiva) per supportare le popolazioni rurali in aree dove la siccità è cronica e ricorrente. Ma questo programma si basa soprattutto su cibo in cambio di lavoro: vengono consegnati beni alimentari ai capi famiglia in cambio di servizi per la comunità. E gli interventi di molte organizzazioni non governative nelle aree colpite dalla siccità consistono nella riabilitazione di pozzi in disuso o danneggiati. Gli investimenti a favore dell’agricoltura su piccola scala ancora non si vedono e non sono strutturali.
Eppure secondo tutti gli studi delle agenzie specializzate dell’Onu – che ha dedicato lo scorso anno all’agricoltura famigliare – la sicurezza alimentare passa proprio dal sostegno allo sviluppo dell’agricoltura su piccola scala, visto che fornisce il 70% di cibo a livello mondiale. A sfamare il pianeta, alla base di tutta la piramide, sono i piccoli agricoltori.
Uno speciale sulla carestia in Etiopia comparirà sul numero di Aprile di Mondo e Missione.