Resta ancora aperto il problema dei giapponesi rapiti nel nulla negli anni Settanta dal regime di Kim Jong-Il, scomparso nel 2011. Nonostante le pressioni dell’Onu, è ancora difficile far chiarezza sulla sistematica scomparsa degli stranieri per mano degli agenti della dittatura nordcoreana.
Il 15 novembre 1977, la tredicenne giapponese Megumi Yokota scomparve mentre stava tornando a casa da scuola a Niigata, città sulla costa del Mare del Giappone. Quarant’anni dopo, Shigeru e Saike, i suoi anziani genitori, la stanno ancora aspettando. «Le nostre vite sono state distrutte», racconta in un video la madre. Il mistero iniziale, però, col tempo si è dissolto in un’amara certezza: Megumi è stata rapita da agenti della Corea del Nord, imbarcata a viva forza su una nave e poi costretta a vivere a Pyongyang, da dove non è mai più tornata.
Tra gli anni Settanta e Ottanta, il copione si è ripetuto più volte: i servizi segreti nordcoreani hanno rapito altri 16 giapponesi – questa è la cifra ufficiale, ma potrebbero essere molti di più – numerosi sudcoreani e cittadini stranieri provenienti da altri Paesi. Un’artista rumena fu portata via con l’inganno da Roma nel 1978. Quattro donne libanesi furono sequestrate a Beirut. La thailandese Anocha Panjoy fu presa a Macao, da dove sparì anche Catherine Hong Leng-leng.
In Giappone, dove dal 1997 esiste l’Associazione delle Famiglie delle Vittime Rapite dalla Corea del Nord, i parenti non hanno mai smesso di tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica, con una raccolta di quasi 10 milioni e 800 mila firme e con varie iniziative. Ogni anno, dal 10 al 16 dicembre, si tiene la settimana dedicata alle vittime dei rapimenti nordcoreani. Lo stesso governo nipponico ha istituito un ufficio responsabile della questione rapimenti e ha messo in agenda il rientro dei suoi concittadini fra le priorità. Ma i recenti test nucleari di Pyongyang rischiano di allontanare la soluzione del problema.
Per chi non è addentro alle questioni nordcoreane, la domanda sorge spontanea: perché Kim Jong-Il, scomparso nel 2011, aveva fatto rapire una ragazzina come Megumi? O Kaoru Hasuike e Yukiko Okudo, una coppia di fidanzati ventenni che una sera d’estate del 1978 passeggiavano sulla spiaggia del loro paese? Sicuramente non per chiedere un riscatto, né per estorcere loro segreti strategici. Il folle piano del dittatore prevedeva di «usare» questi stranieri per insegnare la lingua e i costumi della loro terra agli agenti segreti nordcoreani da infiltrare in Occidente. Alcune donne furono poi date in spose ad altri rapiti stranieri: il partito decideva tutto, matrimoni inclusi.
Notizie certe sull’esistenza di stranieri rapiti dal regime dei Kim iniziarono a trapelare con le prime fughe di agenti nordcoreani e di alcune vittime. Fra i casi più famosi, vi fu la scomparsa nel 1978 del regista sudcoreano Shin Sang-Ok e dell’attrice Choi Eun-Hee, fatti rapire da Kim Jong-Il per rilanciare il cinema nordcoreano. La loro incredibile vita in una prigione dorata a Pyongyang è ricostruita da Paul Fischer, in un libro uscito in Italia nell’ottobre scorso. Shin e Choi sono riusciti a fuggire dai loro aguzzini a Vienna nel 1986, rifugiandosi nell’ambasciata americana. Choi ha poi raccontato di aver conosciuto altre donne straniere rapite, tra cui Catherine Hong. Lo stesso rapimento di Choi e Shin è una prova della prassi seguita dal regime nordcoreano.
Kim Jong-Il ha continuato a negare ogni addebito fino al 2002, quando per la prima volta a un meeting con l’allora premier nipponico Koizumi, ha ammesso il rapimento di 17 giapponesi, sostenendo però che solo cinque erano ancora in vita all’epoca. Otto erano i morti e quattro coloro di cui non si avevano tracce. Come gesto di buona volontà, il dittatore concesse un mese dopo ai cinque giapponesi – tre donne e due uomini – di rientrare per qualche giorno in patria. Fra di loro, c’erano anche i due ex fidanzatini Kaoru e Yukiko, che avevano dovuto lasciare i loro due figli a Pyongyang. Nessuno dei cinque, ovviamente, ha voluto tornare in Corea del Nord e negli anni successivi Tokyo ha ottenuto l’espatrio dei loro figli.
Malgrado questo happy ending, restano ancora tanti punti interrogativi sulla sorte delle altre vittime. Megumi Yokota, la cui vicenda in Giappone ha ispirato film, manga e documentari, non è mai rientrata. Il marito, un sudcoreano rapito da ragazzino come lei, ha dichiarato che si è suicidata nel 1994, ma è stato smentito da un documento in cui la donna risultava ancora in vita nel 2004. La coppia ha avuto una figlia ormai adulta, alla quale nel 2014 è stato concesso di incontrare i nonni giapponesi.
Shigeru e Saike Yokota non credono che la figlia sia morta e continuano a lottare. Come i parenti di Yaeko Taguchi, madre di due bambini, rapita a 22 anni nel 1978. In prima fila, ci sono i suoi fratelli e suo figlio Koichiro. Malgrado le pressioni delle Nazioni Unite, tuttavia, un’intesa non sembra a portata di mano.