Il presidente Mugabe annuncia la nazionalizzazione dell’industria più redditizia del Paese, ma a subire le conseguenze peggiori della scelta potrebbero essere i cittadini, senza lavoro e sempre più tentati dall’emigrazione
I diamanti dello Zimbabwe sono un affare di Stato, chi per estrarli rischia e a volte perde la vita, invece, no. La decisione di nazionalizzare l’industria mineraria potenzialmente più redditizia del Paese, annunciata negli scorsi giorni dal presidente Robert Mugabe, ha conquistato titoli in giornali e notiziari, anche all’estero. Ma proprio mentre l’intervista andava in onda, la sera del 3 marzo scorso, a Chiadzwa, nell’Est, le squadre di soccorso cercavano di stabilire quante fossero le vittime di un crollo avvenuto nel sito minerario più noto, quello di Marange.
I morti accertati sono stati almeno tre, ma fino a quindici persone potrebbero essere rimaste intrappolate sotto le macerie: tutti minatori ‘artigianali’, senza licenza. Come le centinaia che avevano raggiunto Chiadzwa dopo l’anatema di Mugabe alle aziende straniere, accusate di aver “rubato la ricchezza al popolo”. Un popolo che, però, quando guarda alla vicenda, lo fa avendo in mente le necessità della vita quotidiana e forse anche le paure legate a un passato relativamente recente. Lo scenario più temuto è quello che seguì a un’altra nazionalizzazione, quella delle terre, partita nel 2000. L’esproprio dei latifondi dei 4.000 farmers bianchi espulsi dal paese, infatti, portò a una crisi senza precedenti: scomparsa quasi totale degli investimenti esteri e un calo medio del 6% del prodotto interno lordo per nove anni consecutivi.
Da quella crisi i cittadini non si sono mai ripresi. Ancora oggi l’80% lavora, quando ci riesce, ai margini dell’economia ufficiale e molti hanno scelto di emigrare nel vicino Sudafrica: qui vive, secondo stime accreditate, almeno un milione e mezzo di zimbabweani. Le speranze di ripresa, negli ultimi anni, erano state affidate proprio alle miniere di diamanti (la scoperta dei giacimenti di Marange, avvenuta nel 2006, era stata considerata una delle più importanti da oltre un secolo) e agli investimenti di uno degli ultimi ‘amici’ internazionali dello Zimbabwe: la Cina. Ma la polemica che si è creata intorno alle pietre preziose rischia di bloccare anche questo canale.
Tra le aziende a cui è stata tolta la licenza, infatti, due delle più importanti, Anjin Investments e Jinan, sono cinesi, circostanza che mette a rischio gli accordi conclusi tra i due governi negli ultimi mesi. Pechino, in particolare, si era impegnata a stanziare oltre 1,2 miliardi di dollari per rimettere in sesto le disastrate centrali elettriche dello Zimbabwe. Già oggi, alcune zone del paese restano senza luce ed energia per 18 ore al giorno e Japhet Moyo, segretario generale del più importante sindacato locale, la Zctu, ha parlato di “collasso imminente”. Le conseguenze, ha avvertito, si annunciano “disastrose per le poche industrie rimaste produttive, tra povertà in crescita e mancanza di lavoro”.