Bambini e giovani portatori di disabilità, a causa di matrimoni consanguinei, vengono nascosti, reclusi, abusati. L’impegno di un missionario del Pime che ha aperto le porte di casa sua
Ha speso la vita in giro per il mondo. Poi, alla soglia dei settant’anni, è tornato a casa, tra le risaie di Manathidal, municipalità di Thiruvaiyaru, sulla punta meridionale dell’India. Non per dedicarsi al meritato riposo, ma per spalancare le porte della dimora paterna ai più negletti della società: bambini e giovani, portatori di disabilità, perché figli di matrimoni consanguinei.
Padre Michael Lourdusamy ha ancora l’energia positiva di chi vuole cambiare le cose, anche un contesto che sembra immutabile, come questa vasta regione meridionale dell’immenso subcontinente indiano, dove sulla povertà della gente si inseriscono anche fattori tradizionali e religiosi che sembrano ostacolare ogni progresso. E che penalizzano i più deboli e vulnerabili.
«Un tempo – racconta padre Mike – le terre qui erano possedute e dominate dai bramini. I contadini erano letteralmente servi della gleba (paria). Poi con l’indipendenza nel 1947, e il rafforzarsi del sistema democratico, si sono resi conto che le cose sarebbero un po’ cambiate. Così hanno venduto e sono emigrati in Nord America».
I contadini locali, tuttavia, sono rimasti molto poveri. Oggi, magari, posseggono i campi che coltivano, ma le dimensioni degli appezzamenti sono così modeste che rendono la sopravvivenza della famiglia estremamente difficile. Deriva da qui, secondo padre Lourdusamy, la forte incidenza dei matrimoni consanguinei tra cugini, per evitare il frazionamento della terra e conservare il controllo sulla proprietà. Il fenomeno riguarda soprattutto le famiglie musulmane e indù, ma non mancano casi anche tra i cattolici.
Le conseguenze sono ben visibili, se ci si aggira nei villaggi di questa zona. In base a un censimento condotto nel 2011, in 88 villaggi campione, sarebbero 213 i bambini da zero e quindici anni con forme diverse di disabilità: di questi, 136 ritardati mentali, 13 ipovedenti, 7 sordomuti e gli altri soprattutto con problemi ortopedici.
Questa situazione ha interrogato profondamente padre Michael: «È vero che le cause della disabilità mentale e motoria possono essere a volte riconducibili anche a tentativi falliti di aborto o a parti cesarei mal condotti, ma il fenomeno è troppo diffuso per non essere soprattutto di origine genetica».
Quasi sempre per le famiglie la situazione è ingestibile. E per i figli drammatica. La maggior parte delle persone, infatti, deve andare a lavorare nei campi e non può occuparsi dei disabili, che quasi sempre vengono lasciati soli in casa, spesso legati, incatenati o chiusi a chiave. Ma non è solo una questione di “gestione”. La mancanza di istruzione associata alla mentalità indù – che attribuisce l’handicap a colpe “ereditate” dalla vita precedente – fanno sì che questi disabili siano motivo di vergogna e di disprezzo. Non sono neppure considerati esseri umani degni di un’istruzione.
«Spesso – conferma il padre – i genitori, anch’essi poco istruiti, ricorrono a metodi sbagliati, pensando di correggere i ritardi mentali dei loro figli. Di fatto, però, peggiorano solo la situazione. Succede anche che queste persone siano vittime di molestie sessuali e torture».
Per questo padre Michael ha deciso di creare nella casa paterna – ormai di proprietà dei nipoti, ma messa completamente a sua disposizione – il Lourdhashramyam Day Care Centre (Centro di accoglienza Lourdusamy), aperto dalle dieci del mattino alle tre del pomeriggio. Si tratta di un Centro volutamente non residenziale, come invece vorrebbero gli ufficiali governativi, perché padre Mike è convinto che i ragazzi debbano continuare a stare con le loro famiglie nei villaggi. Anzi, insiste molto affinché i familiari e tutta la comunità imparino a considerarli membri della società con la stessa dignità di tutti gli altri.
Padre Michael si dà un gran daffare anche se, per il momento, l’attività si limita alla sua casa di Manathidal. Qui, possono arrivare solo coloro che sono abbastanza vicini o che sono in grado di viaggiare coi mezzi pubblici e di salire e scendere da un autobus. Il Centro cerca di sviluppare le loro capacità di apprendimento, socializzazione ed occupazione (attraverso, ad esempio, la confezione di buste, borse, collanine…) per toglierli dall’isolamento e mostrare alle comunità che, anche per loro, c’è una possibilità dignitosa di lavoro e di vita. Altri, invece, vengono seguiti a domicilio. Le visite alle loro case sono anche occasioni per sensibilizzare i villaggi, a cominciare dalle cose più elementari, come l’igiene personale, cosa che le famiglie non ritengono necessariamente indispensabile. Ma è anche un modo per far uscire questi ragazzi di casa, mostrarli in pubblico, cercando di vincere all’interno della famiglia e tra la gente del posto il senso di vergogna, disagio e avversione che è ancora molto diffuso. Affinché un giorno anche questi ragazzi possano essere considerati semplicemente delle persone. Come tutti.