Le polemiche dopo la scarcerazione dell’assassino di Chris Hani, leader della lotta di liberazione, evidenziano i limiti della pacificazione tra bianchi e neri. Una sfida a cui le Chiese possono rispondere col messaggio dell’Anno Santo. Mons. Slattery: «Quando si tenta di unire due popoli, quello della misericordia è un messaggio cardine»
C’è una foto che più di altre simboleggia cosa significa per i sudafricani convivere con le ferite dell’apartheid, la segregazione razziale. Fu scattata il 23 giugno 1993 davanti a un tribunale, quando ancora il potere nel paese era in mano alla minoranza bianca. Un manifestante nero a torso nudo, una catena avvolta simbolicamente intorno al collo e al polso, porta un cartello: “Non vi perdoneremo mai e poi mai per aver ucciso il nostro Hani”, c’è scritto.
Chris Hani era il segretario del partito comunista sudafricano, una delle forze che avevano combattuto il regime. Era anche tra i leader politici più popolari e rispettati dalla maggioranza nera, al punto che, prima ancora che Nelson Mandela fosse eletto presidente, se ne parlava come suo possibile successore. Ma Hani non riuscì neanche a votare nelle elezioni democratiche del 1994: fu ucciso sulla porta di casa sua il 10 aprile 1993, due settimane scarse prima che la foto del manifestante fosse scattata. Il 10 marzo scorso, quasi 23 anni dopo i fatti, la decisione di un tribunale nazionale di garantire la libertà sulla parola al killer, Janusz Walus, ha dimostrato quanto ancora attuali siano le parole scritte su quel cartello. La vedova di Hani, Limpho, ha criticato la decisione, accusando di razzismo il magistrato che ha emesso la sentenza e la sezione locale del partito di governo African National Congress, che guidò la lotta di liberazione, ha organizzato una manifestazione davanti alla Corte costituzionale, a Johannesburg, per chiedere che la decisione sia rivista.
Polemiche simili, legate alla scarcerazione di esponenti del regime dell’apartheid o di autori di omicidi politici non sono nuove in Sudafrica. “La Commissione verità e riconciliazione istituita dal nuovo governo democratico – è l’analisi di mons. William Slattery, arcivescovo di Pretoria e responsabile delle comunicazioni della conferenza episcopale – ha raggiunto molti risultati, ma non ha terminato il compito di riconciliare le vittime e gli oppressori: è opinione generale che molti colpevoli non abbiano veramente confessato i loro crimini, come nel caso dell’omicidio di Chris Hani, la cui vedova ritiene che Walus non sia pentito e abbia coperto altre persone coinvolte nel delitto”.
Prima che giuridica, la questione è, secondo l’arcivescovo, sociale: ancora oggi bianchi e neri sono “due gruppi di persone che vivono l’uno accanto all’altro, ma non insieme”. Del resto, prosegue “si tratta di gruppi che si sono combattuti per tre secoli, aspettarsi che si fondessero facilmente era il grande ideale di personalità come Nelson Mandela e Desmond Tutu: un ideale che però ha dovuto fare i conti con la realtà”. Per cambiare questa situazione, nota mons. Slattery, anche le Chiese possono fare di più: “Sono uno specchio della società; si è fatto molto per portare avanti l’ideale antirazzista, ma ora bisogna affrontare anche gli elementi culturali che rendono difficile a bianchi e neri avvicinarsi”. Un impulso può venire anche dal magistero di Papa Francesco e in particolare dall’enfasi nel sottolineare, accanto alla necessità della giustizia, quella della misericordia: “In Sudafrica dobbiamo applicare questo termine proprio alla riconciliazione. – concorda l’arcivescovo di Pretoria – Quando si tenta di unire due popoli, quello della misericordia è un messaggio cardine”.