Pakistan bivio di sangue

Pakistan bivio di sangue

Parla l’arcivescovo di Karachi mons. Joseph Coutts sul Paese sconvolto dalla strage di Pasqua: «Viviamo in una tensione costante. Segnali positivi dal governo contro il terrorismo, ma come rieducare i giovani istigati all’odio?»

 

La strage nel parco di Lahore nel giorno della festa dei cristiani ha segnato in maniera indelebile la Pasqua 2016. Oltre settanta le vittime, in grande maggioranza donne e bambini. Vittime proprio nell’anno in cui la Pasqua – insieme alla festività indù dell’Holi – era stata riconosciuta ufficialmente come un giorno festivo nel calendario del Pakistan. Piccolo segno di apertura verso le minoranze che i gruppi più estremisti della galassia dei talebani hanno voluto subito colpire. Con una strage che – alla fine – ha lasciato dietro di sé più vittime musulmane che cristiane, a dimostrazione di come l’odio, una volta messo in circolo, non conosca confini. Quella di Lahore, però, è solo l’ultima stazione del lungo calvario del Pakistan, che in questi ultimi anni ha conosciuto tanti altri momenti di sangue come questo. Insieme ad altri drammi come quello di Asia Bibi, la donna in carcere da più di 2.500 giorni perché falsamente accusata di blasfemia in nome dei famigerati articoli del codice penale pachistano che puniscono con la condanna a morte l’offesa all’islam, il più delle volte contestata senza alcuna prova. Asia Bibi è divenuta un simbolo anche per i suoi persecutori, cosa che rende ancora più difficile la soluzione della vicenda. Eppure proprio durante questi mesi qualcosa si è mosso in Pakistan, con alcuni segnali lanciati dal premier Nawaz Sharif sul terreno della lotta ai gruppi jihadisti e ai movimenti che li fiancheggiano. Proprio di questo avevamo parlato pochi giorni prima della strage di Lahore con l’arcivescovo di Karachi, Joseph Coutts, che in marzo ha fatto tappa in Italia per una serie di iniziative promosse dall’Aiuto alla Chiesa che Soffre in occasione dei cinque anni dall’assassinio di Shabhaz Bhatti, l’attivista e politico cattolico pachistano ucciso nel 2011 proprio per la sua battaglia contro gli abusi legati alla legge antiblasfemia.

«Viviamo in una tensione costante: sappiamo che ci sarà un altro attacco, anche se non sappiamo dove e chi lo compirà», ci aveva detto con parole rivelatesi purtroppo una facile profezia. Attacchi che non riguardano solo la comunità cristiana (circa il 2% della popolazione), ma anche le altre minoranze e tutti quei musulmani che non accettano l’islam radicale. Emblematica la strage avvenuta a gennaio a Charsadda, all’Università intitolata a Badsha Khan, il “Gandhi musulmano”.

Ma chi c’è dietro a questi attentati? E come si guarda oggi dal Pakistan al fenomeno dell’Isis?

«L’Isis è cresciuto in un contesto preciso: quello del Medio Oriente con la catena di tragedie iniziate con la guerra in Iraq – risponde mons. Coutts -. Il pericolo per noi non è rappresentato da infiltrazioni esterne, ma da gruppi jihadisti locali che tessono legami con realtà come al Qaida o l’Isis. Ci sono segnali che i giovani sono sempre più influenzati da queste ideologie. Servizi giornalistici hanno raccontato le storie dei pachistani andati a combattere in Siria. Sono gruppi locali messi fuori legge dal governo che, come accaduto con Boko Haram in Nigeria o al Shabbab in Somalia, attraverso i nuovi media cercano di collegarsi a una rete globale.Questo è molto pericoloso».

La stretta nei confronti dei gruppi jihadisti ha avuto il suo apice il 29 febbraio nell’esecuzione della pena capitale di Mumtaz Qadri, l’assassino di Salman Taseer, governatore del Punjab, musulmano ucciso anche lui nel 2011 per aver preso posizione in favore di Asia Bibi. Qadri era una delle sue guardie del corpo e sfruttò questa sua posizione per scaricargli contro 28 colpi di pistola.

Nonostante le fortissime pressioni dei movimenti politici dell’islam radicale, il governo Sharif ha portato fino in fondo la condanna a morte. Anche se adesso i suoi sostenitori lo considerano un martire: proprio a Pasqua, mentre avveniva la strage di Lahore, alcune migliaia di persone hanno occupato per quattro giorni una piazza di Islamabad chiedendo che la cella in cui è stato detenuto Qadri diventi un mausoleo e la condanna a morte di Asia Bibi (sospesa dalla Corte Suprema l’estate scorsa in attesa di un riesame del caso) venga eseguita al più presto.

«Qadri ha commesso un omicidio premeditato, di fronte a testimoni – commenta l’arcivescovo di Karachi -, godeva della fiducia di Taseer. Secondo la nostra legge la pena per un omicidio premeditato è la condanna a morte. Nel suo caso la legge ha semplicemente fatto il suo corso. Inoltre va aggiunto che Qadri non aveva mostrato alcun pentimento; era convinto di aver fatto qualcosa di buono, era soddisfatto del suo gesto. In Pakistan molte persone sono favorevoli alla pena di morte per chi continua a rappresentare una minaccia per la società. Ed eseguendo questa condanna il governo ha lanciato un messaggio forte ai terroristi: non potete fare quello che volete, non siete al di sopra della legge. Del resto la pena di morte non esiste solo in Pakistan, pensiamo agli Stati Uniti…».