La testimonianza di Monique e Hanan, delle Suore del Buon Pastore che sono accanto alle vittime della guerra in Libano e in Siria. «L’aiuto più grande? Smettete di vendere le armi»
Un cessate il fuoco durante il quale, in diverse zone della Siria, si continua comunque a combattere e morire. Un negoziato politico guidato più dall’inerzia che da una reale volontà di pace. Con la popolazione civile che nelle città in macerie prova a tirare un po’ il fiato, senza sapere ancora bene se fidarsi oppure no. Mentre altre migliaia di siriani, privi di speranze, premono alle porte dell’Europa.
Il conflitto in Siria dalla fine dello scorso mese di febbraio è entrato in una nuova fase piena di incertezze. E la tentazione di giocare con le parole è più forte che mai. Diventa ancora più importante, allora, ascoltare le voci di chi questa tragedia la sta vivendo dalla parte delle persone più deboli e indifese. E prova a leggere anche il dolore con gli occhi della fede. È il dono che ci hanno fatto qualche settimana fa due religiose di origine araba, Hanan Youssef e Monique Tarabeh, che abbiamo incontrato a Roma nella casa generalizia delle Suore del Buon Pastore, una congregazione religiosa presente in oltre settanta Paesi e in prima linea nel sostegno alle vittime di questo lungo conflitto, sia tra i profughi in Libano sia all’interno della stessa Siria.
Sono racconti che intrecciano anche le vite di queste religiose. Perché suor Hanan, libanese, fino a pochi mesi fa responsabile di una struttura di accoglienza alla periferia di Beirut, di tragedie ne ha viste tante: «Avevo undici anni quando è iniziata la guerra in Libano – racconta -. So per esperienza personale che cosa significa correre da un posto all’altro per salvare la vita. E poi in trent’anni a Beirut ho vissuto prima tutta l’emergenza dei profughi iracheni e adesso quella per la guerra in Siria». Suor Monique, invece, è proprio di Damasco e ha tuttora là la sua famiglia: «Mia nipote di undici anni è rimasta colpita in un bombardamento nel 2014 – racconta -. È successo mentre mi trovavo nel Paese: sono andata a trovarla in ospedale e c’è stato un altro attacco. Le dicevo: “Non posso più sopportare questa situazione”. Ma lei mi ha risposto: “Non dirlo, zia; che Dio possa perdonarli”…».
Dentro a una guerra con uno sguardo di fede. Che non significa – però – rassegnazione: «In Italia non avete consapevolezza di quanto sta succedendo – commenta suor Hanan -. La situazione sta diventando ogni giorno peggiore, il Libano non è più in grado di offrire i servizi essenziali per rispondere alla crisi dei profughi: complessivamente ormai sono due milioni in un Paese di appena quattro milioni di abitanti. Solo il 20% dei bambini ha accesso a una scuola. È una crisi sociale e anche politica. E non è tanto questione di invocare solidarietà; si tratta piuttosto di dire una volta per tutte: basta alla guerra che sta distruggendo il Medio Oriente».
Le stesse discussioni che attraversano oggi l’Europa sul tema dei richiedenti asilo lasciano alquanto perplesse le due religiose: «Comprendiamo le paure di fronte alle migliaia di rifugiati che bussano alle vostre porte – continua la religiosa libanese -. Ma noi non vogliamo affatto che la nostra gente si riversi nei vostri Paesi: vogliamo che possa restare a casa propria. Perché questo succeda, però, abbiamo bisogno che l’Europa agisca sul serio per fermare la guerra. Può farlo. E il primo passo è molto semplice: fermare la vendita delle sue armi che alimentano questa guerra. È l’aiuto più grande che ci possono dare; conta molto più dei milioni di euro stanziati per l’assistenza ai profughi. Fermate la vendita delle armi, come il Papa non si stanca di ripetere. Ve lo chiediamo nel nome dei 15 mila bambini che hanno perso la vita in Siria e di tutti i loro coetanei che oggi non sono più nemmeno in grado di immaginare che cosa sia una vita normale».
Sì, perché proprio la quotidianità è fatta di storie agghiaccianti in Siria: «Molte famiglie – racconta suor Monique – hanno perso un proprio caro o hanno vissuto l’esperienza dei rapimenti. Ascolti storie terribili: “Mio figlio stava camminando in strada e l’hanno sgozzato…”, “Questa bambina è stata abusata e obbligata ad andare coi jihadisti”. Perché tutto questo? È una guerra senza ragione. Chi voleva libertà oggi non ha ottenuto libertà. La guerra va avanti per interessi che non sono quelli della gente del Paese. Ci sono troppi interessi esterni in gioco».
Dentro a questo inferno la sfida portata avanti dalle suore del Buon Pastore è quella di essere luogo di accoglienza per chi ha più bisogno. «A Homs e Damasco le nostre consorelle ricevono persone che arrivano dalle zone più colpite dalla guerra – racconta suor Monique -, in particolare donne e bambini. A Homs arrivano anche 300 o 400 persone al giorno. Cerchiamo di trasformare le nostre case in piccoli punti di pace. Attraverso un percorso ideato con un istituto canadese lavoriamo sulle ferite di ciascuno. Per esempio, utilizziamo i pupazzi per aiutare i bambini a dare voce alle loro paure: sono piccoli che molte volte hanno visto i genitori morire senza potere far nulla. Riuscire a parlarne è il primo passo per un intervento terapeutico. A Damasco, poi, vengono molte donne e ragazze vittime di abusi; arrivano senza energia, senza più forza per affrontare il futuro. Offriamo sostegno psicologico e sociale».
«A Beirut – fa eco suor Hanan – la nostra casa è in una zona a maggioranza sciita, ma l’immagine del Buon Pastore che campeggia sulla nostra casa è un segno: accoglie chiunque, senza discriminazioni. Nel 2015 abbiamo offerto aiuto a 18 mila persone: il 30% provenienti dall’Iraq, il 50% dalla Siria e il resto libanesi colpiti anche loro dalla crisi. C’è un’équipe di dieci persone che lavora a tempo pieno in questa struttura di Beirut, più una trentina di medici che prestano assistenza sanitaria».
Ed è con gli occhi di questa umanità sofferente che le suore del Buon Pastore guardano anche agli sviluppi delle ultime settimane in Siria. «Il volto umano dei conflitti è quello che rimane sempre in secondo piano – commenta suor Hanan -, schiacciato dalle valutazioni politiche, quasi sempre di parte. Ma solo quando torniamo a mettere al centro la vita delle persone ci riscopriamo responsabili. E troviamo il coraggio per dire davvero: basta». Il cessate il fuoco può essere l’inizio della fine della guerra in Siria?, chiediamo loro. «Speriamo che lo possa essere – risponde suor Monique -, noi preghiamo affinché sia un raggio di luce dentro a questo buio. Stiamo vivendo queste notizie come un’occasione che ci è donata da Dio durante l’Anno Santo della Misericordia. Chiediamo a Lui di toccare i cuori delle persone».
Si, perché anche tra le macerie della Siria si sta celebrando il Giubileo. E forse proprio questo è uno dei posti dove il suo messaggio radicale sta andando più al cuore della vita delle persone: «Il perdono è l’unica strada per stare insieme. Se non siamo noi a testimoniarlo chi mai lo farà in Siria? – si chiede la religiosa di Damasco -. È un dono prezioso il fatto che ci sia una Porta Santa anche ad Homs; è stato bellissimo sapere che migliaia di persone si sono radunate lì per la sua apertura. È la fede a dare la forza per sopravvivere anche in questa situazione così difficile. Noi non preghiamo solo perché finisca la guerra; preghiamo anche perché il bene, che è presente pure dentro a questa grande sofferenza, possa avere la meglio e diffondersi. Chiediamo che siano i gesti di amicizia e solidarietà tra le persone a convertire i cuori. Aggiungo anche: nel 2013 la preghiera convocata da Papa Francesco riuscì a fermare l’ipotesi di bombardamenti che avrebbero ulteriormente aggravato la situazione. Perché non ripetiamo ancora questo gesto?».
Il bene nascosto anche tra le pieghe di una guerra terribile. Ce n’è più di quanto si pensi: piccoli gesti di solidarietà tra chi è vittima di un meccanismo di morte. E c’è soprattutto un volto che in Siria è diventato il simbolo di tutto questo: quello di padre Frans Van der Lugt, gesuita olandese, ucciso a Homs nell’aprile di due anni fa per la sua scelta di condividere fino in fondo la sorte degli ultimi. «Per nove mesi, pur avendo la possibilità di andarsene, è rimasto nella città assediata – ricorda suor Monique -. “Sono uno di voi”, diceva. Ha vissuto questo tempo da vero uomo di Dio, fratello di tutti. Ha accolto sulla porta del suo convento anche chi è venuto a ucciderlo: gli stava parlando quando gli ha sparato. Padre Frans ha testimoniato l’amore di Dio anche ai suoi killer e così facendo ha distrutto la violenza con l’amore. È per questo che tutti – cristiani e musulmani – a Homs oggi lo ricordano come un santo. Ha lasciato un esempio che altri stanno cercando di imitare. Sì, se la Siria nonostante tutto ancora sopravvive è perché c’è anche tanto amore. Seminato giorno dopo giorno»