La misericordia ci chiede di assumerci i rischi del cambiamento. Nel suo nuovo libro Sandro Calvani racconta di quando, in Eritrea, si trovò di fronte a un bimbo e a un dilemma personale
A seguito della grande carestia in Eritrea nel 1984-’85, Caritas italiana fu fortemente impegnata in un enorme programma di costruzione di dighe e pozzi per combattere la siccità che, insieme alla guerra civile, aveva causato la perdita dei raccolti in quel martoriato Paese africano. Come coordinatore degli aiuti internazionali, era mio compito garantire che oltre 26 miliardi di lire di aiuti raccolti nelle parrocchie italiane – «l’obolo delle vedove povere», come lo chiamava monsignor Nervo, allora presidente della Caritas – finanziassero un programma efficace. Feci decine di viaggi in Eritrea, sempre in condizioni disagiate, e non solo per l’assoluta mancanza di servizi essenziali, come acqua pulita, comunicazioni, strade sicure senza mine che facevano saltare per aria i camion: il disagio più importante era l’inquietudine dei nostri partner della Chiesa locale; non capitava mai che uno schema di priorità durasse più di tre mesi. Dopo ogni missione in una regione, dopo ogni studio di situazione, sorgeva sempre l’urgenza di fare qualcosa di nuovo, di avventurarsi in iniziative mai provate prima. Con l’ampliarsi e il consolidarsi dei progetti, invece di diminuire, vedevo i rischi aumentare sempre di più. Inoltre, dato che il Paese era in guerra con l’Etiopia, i pericoli erano comunque già altissimi, senza bisogno che aumentassero con il nostro modo di operare. Dapprima ne parlai a padre Paolos Beraki, un eritreo sacerdote cappuccino, allora direttore della Caritas eritrea. Gli dissi: «Bisognerebbe darci una sana calmata e dovremmo pensarci due volte prima di prendere la responsabilità di nuovi progetti in villaggi dove non abbiamo mai lavorato, dove non conosciamo nessuno e non sappiamo cosa ci aspetta». Padre Paolos sorrise per cortesia, ma non capiva di cosa stessi parlando. Mi disse che c’era poco da stare tranquilli, la guerra imperversava e la carestia faceva migliaia di vittime; bisognava accettare di sporcarsi le mani e pure di sbagliare qualche progetto e poi aggiustare il tiro imparando dagli errori, perché era impossibile non essere inquieti ogni giorno, in mezzo a tutte quelle urgenze.
Una mattina, in viaggio su una vecchia jeep che da tempo aveva perso gli ammortizzatori, padre Paolos mi disse: «Dobbiamo cambiare il giro: da Asmara, andiamo a Saganeiti, Massawa, Addi Ugri e Keren, per vedere dei nuovi progetti. Guido io, tu riposati sul sedile dietro, così stai tranquillo». L’ennesimo cambio di programma e i mille salti della jeep furono un ottimo stimolo a discutere per ore dell’inquietudine degli operatori di soccorsi e della misericordia. Gli confidai anche il desiderio mio e di mia moglie di un nostro impegno personale e di famiglia attraverso l’adozione, appena possibile, di un bambino di quelle terre. Nessuno dei due si riposò nemmeno un minuto. Al ritorno ad Asmara, padre Paolos aveva in mente l’ultima sorpresa di quei due giorni inquieti. Voleva presentarmi un bambino abbandonato perché la mamma era morta nel darlo alla luce: «Potresti adottarlo subito tu con tua moglie. Come andrà a finire non lo so, ma se resta qui è morto tra pochi mesi». Risposi: «Ma non abbiamo ancora un’autorizzazione di idoneità all’adozione internazionale. Se lo faccio, in Italia potrebbero arrestarmi».
Con queste preoccupazioni in cuore, andai a parlare con monsignor Luca Milesi, un missionario cappuccino che era allora l’amministratore apostolico del vicariato di Asmara, capitale dell’Eritrea. Monsignor Milesi era la più alta autorità della Chiesa in Eritrea; era un lombardo molto esperto ma di poche parole, non amava perdere tempo a “filosofare”, cosa che lui definiva “il dibattito sul sesso degli angeli”. Gli esposi in tre minuti le mie incertezze sulle idee affrettate di padre Paolos: di più non mi avrebbe ascoltato. Mi rispose: «Questi non sono problemi miei o nostri qui in Eritrea; sono problemi di voi che siete venuti ad aiutarci. Non conosco atto di carità che non sia generato da un po’ di inquietudine o che non generi inquietudine, ma poi si realizza la felicità nostra e di chi aiutiamo. Non so che dirle: decida lei liberamente cosa fare. Ma, se con quel che fa vuole ottenere un cambiamento, accetti l’inquietudine prima e dopo. Se non le va, forse sarebbe meglio se lei lavorasse alle Poste italiane». Una telefonata a mia moglie e il giorno dopo ripartii per Roma accompagnato dal bambino da adottare, che si unì all’allegra compagnia degli altri tre nostri figli. Ci furono ulteriori inquietudini per l’adozione, dovute a qualche vicissitudine burocratica e giudiziaria, ma poi tutto finì bene. E i progetti in Eritrea continuarono per anni nella continua incertezza, tra rischi e inquietudine del cambiamento che volevamo generare attraverso la misericordia creativa.