Il crollo dei prezzi del greggio ha fatto riemergere le difficoltà anche di economie africane in crescita, che stanno negoziando prestiti con le istituzioni internazionali. Ma la soluzione alla crisi non è solo una questione di mercato.
«Oro nero»: due sole parole facevano da titolo, nell’ottobre 2002 a un articolo della rivista The Economist dedicata alle prospettive economiche che il business degli idrocarburi sembrava destinato ad aprire per l’Africa subsahariana. In effetti, per oltre 10 anni, le promesse di grandi profitti prospettate dal settimanale inglese sono state in buona parte mantenute tanto che Paesi come il Ghana e l’Angola hanno conquistato anche i titoli della stampa occidentale. Il primo per i suoi tassi di crescita da record: +14% nel 2011, l’anno dopo l’inizio dello sfruttamento delle sue riserve offshore. La seconda, per gli investimenti fatti dall’élite politica ed economica in banche e imprese del Portogallo, ex Paese colonizzatore, durante la crisi europea. E la «straordinaria resilienza» del continente, ancora due anni fa, veniva lodata dalla direttrice del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde.
In pochi mesi, però, gli stessi Paesi si sono trasformati da modello positivo a terreno d’intervento. L’ultimo Stato ad annunciare «colloqui» con il Fondo per la concessione di un prestito è stata proprio l’Angola, le cui importazioni per il 95% dipendono ancora dal petrolio. Troppo, nel momento in cui i prezzi del greggio sono calati da oltre 100 dollari al barile ad appena oltre i 40, al punto che il governo di Luanda aveva già dovuto interrompere, nel 2015, alcuni programmi di sviluppo, come la costruzione di strade. Una mossa quest’ultima, che la Nigeria non ha voluto per ora compiere: anche l’altro ‘gigante’ petrolifero africano – alle prese con difficoltà simili – è comunque in trattative con un’istituzione internazionale, la Banca mondiale, per ottenere credito.
Non sono casi isolati: negli scorsi mesi hanno dovuto chiedere l’aiuto del Fmi il Mozambico (che gli idrocarburi li ha sfruttati soprattutto sotto forma di gas naturale) e persino il Ghana. Il miracolo del 2011, infatti, è stato di breve durata. Il calo dei prezzi degli idrocarburi e la contemporanea svalutazione della moneta, il cedi, hanno fatto sì che l’indebitamento del Paese superasse i livelli raggiunti nei primi anni 2000: paradossale per uno Stato che aveva addirittura previsto di accantonare parte dei proventi a favore delle generazioni future.
La speranza di molti governi africani, è ora che ai prestiti segua una ripresa dei prezzi delle materie prime, ma la questione va più a fondo. Non coinvolge solo un modello di sviluppo che finora ha permesso raramente di diversificare l’economia, ma anche gli stessi gruppi al potere nei diversi Paesi, spesso i maggiori – se non gli unici – beneficiari della crescita economica. Un problema che ben prima del boom petrolifero, era stato diagnosticato dal beninese Albert Tévoédjiré. «L’opzione della povertà praticata e diffusa da dei dirigenti onesti e responsabili avrebbe un immenso potere di rigenerazione della società» scriveva infatti, già nel 1978 l’economista cattolico, in un testo dal titolo provocatorio: «Povertà, ricchezza dei popoli».