Dopo mesi di negoziazioni, il leader ribelle Riek Machar è tornato a Juba e si appresta a giurare nuovamente come vice presidente. Ma intanto si è fatto precedere da 1.500 uomini armati
Alla fine è tornato. Ci sono voluti più di due anni di guerra, oltre 50 mila morti, due milioni di profughi e cinque milioni di persone bisognose di aiuti umanitari urgenti, per riportare tutto alla casella di partenza. O quasi.
Riek Machar, primo vice presidente del Sud Sudan, ha fatto ritorno ieri 27 aprile a Juba. Adempiendo, dopo mesi di ritardi e rinvii, a quanto prescritto dall’accordo di pace siglato nell’agosto del 2015. E facendosi però precedere da più di 1.500 uomini armati e trattando ferocemente e sino all’ultimo sulla possibilità che i suoi miliziani potessero disporre di mitragliatrici, granate e armi varie.
Si vis pacem, para bellum, dicevano gli antichi: se vuoi la pace, sii pronto per la guerra. Ed è sotto improbabili gigantografie inneggianti alla riconciliazione che i due contendenti – Riek Machar, appunto, e il Presidente Salva Kiir – si accingono ora a ricominciare da dove avevano lasciato a metà 2013, con gli stessi incarichi e una valanga di nuovi sospetti e rancori. In mezzo, una guerra fratricida, combattuta da dicembre 2013 e che ha lasciato un Paese ridotto allo stremo, l’economia a picco, la coesione sociale minacciata da vecchie e nuove tensioni interetniche, milioni di persone fuggite dentro e fuori il Paese, e più di 200 mila tuttora ammassate nei campi profughi allestiti dall’Onu. Per non parlare delle migliaia di donne ridotte in schiave e violentate dai miliziani e dei moltissimi bambini reclutati a forza dai gruppi armati. Gruppi tuttora attivi e fuori controllo in varie parti del Paese.
Perché se si è finalmente giunti a un accordo al vertice, tra i due principali rivali e le loro forze armate, molte altre milizie non hanno siglato la pace e continuano a destabilizzare diverse aree del Paese e a creare un clima di divisione e insicurezza.
«C’è bisogno di rimettere insieme il nostro popolo affinché uniti si possa curare le ferite», ha dichiarato non senza una buona dose di retorica e cinismo Machar, mettendo piede sul suolo di Juba, accolto da tappeti rossi, ministri e diplomatici.
Intanto, però, non tornerà ad abitare nella sua vecchia abitazione in città, ma in una nuova residenza, in periferia, in posizione strategica per fuggire o per farsi raggiungere da rinforzi. Non si sa mai. E mentre attende di giurare nuovamente come vice-presidente di un governo di transizione, si tiene pronto per eventuali nuovi scontri. Del resto, la stessa base nuer di Machar così come alcuni suoi uomini ritengono più vantaggioso continuare la guerra, con tutti i business ad essa legati, piuttosto che scommettere sulla pace. Lo stesso per alcuni “falchi” dinka, teoricamente vicini a Kiir, che potrebbero far di tutto per sabotare questo fragile accordo. Giocando sempre e di nuovo sulla pelle della loro gente. Che ha lottato lungamente per l’indipendenza e si ritrova ora a pagare il prezzo altissimo di un atroce conflitto intestino.