A un anno dalla pubblicazione dell’enciclica Laudato Si’ sono moltissimi i leader ambientalisti assassinati in ogni angolo del pianeta. E molti altri continuano a lottare per un mondo più giusto
La fotografia che durante il primo Incontro dei movimenti popolari in Vaticano la mostra accanto a Papa Francesco con il poncho degli indios lencha è già diventata un simbolo. Il 28 ottobre 2014, c’era anche l’honduregna Berta Cáceres ad ascoltare le parole di Bergoglio sulle “Tre T” – tierra, techo y trabajo, cioè terra, casa e lavoro – come diritti irrinunciabili per i poveri. Poi – il 18 giugno 2015 – era arrivata l’enciclica Laudato Si’; e anche in quel testo, il primo in assoluto dedicato da un Papa al Creato come “casa comune” da preservare, Berta Cáceres aveva trovato parole chiare sull’impegno delle popolazioni indigene in difesa dei propri territori, sfregiati dalla sete di materie prime dell’economia globale.
«Quando rimangono nei loro territori, sono quelli che meglio se ne prendono cura – scriveva Papa Francesco a proposito degli indios al numero 146 dell’enciclica -. Tuttavia, in diverse parti del mondo, sono oggetto di pressioni affinché abbandonino le loro terre e le lascino libere per progetti estrattivi, agricoli o di allevamento che non prestano attenzione al degrado della natura e della cultura».
Berta non poteva non leggere in queste parole la sua storia; quella della battaglia portata avanti per anni contro la diga di Aqua Zarca, un mega impianto idroelettrico sostenuto dalla Cina e dalla Banca mondiale, che avrebbe comportato per centinaia di indios la perdita di ogni accesso alle sorgenti d’acqua. Battaglia alla fine vinta, con l’abbandono del progetto da parte dei partner internazionali; anche per questo, nel 2015, le era stato assegnato il Goldman Environmental Prize, il più prestigioso riconoscimento ambientalista. Eppure, né le parole del Papa né il premio internazionale sono stati sufficienti a proteggerla dagli squadroni della morte: il 3 marzo 2016 i killer sono entrati in casa sua e hanno ucciso anche lei. Come già successo a tanti altri prima, in Honduras e in altre parti del mondo.
Berta Cáceres è il volto più noto dei martiri di Laudato Si’; quelli che durante l’anno ormai trascorso dalla pubblicazione dell’enciclica sono morti in nome della difesa di quell’alleanza tra l’uomo, la giustizia tra i popoli e il Creato che il documento di Papa Francesco invoca con forza. Perché le pressioni di cui parla l’enciclica non hanno solo il volto di promesse o ricatti di ogni tipo; quando tutto questo non basta nel mondo di oggi si continua a uccidere in nome delle materie prime o dell’energia a buon mercato; e in molte più situazioni di quelle che a prima vista si potrebbe pensare.
I dati statistici più recenti sono quelli forniti da una ricerca dell’ong Global Witness: dicono che tra il 2002 e il 2014 nel mondo vi sono state due morti di questo tipo alla settimana. Un trend in drammatica crescita e che nel biennio 2015-2016 tutto lascia pensare non abbia affatto rallentato. Ed è per questo che – andando un po’ oltre la retorica degli anniversari – vogliamo provare qui a raccontare i dodici mesi trascorsi dalla pubblicazione di Laudato Si’, riproponendo almeno alcuni nomi di queste vittime, quelli portati alla ribalta delle cronache internazionali. Perché mentre in mille convegni i potenti del mondo continuavano ad esprimere a parole il loro consenso generale sui principi espressi da Papa Francesco nel suo documento, la strage dell’uomo e del Creato in nome del mero profitto andava avanti ugualmente, da una parte all’altra della Terra.
Erano passati poco più di due mesi dall’enciclica, ad esempio, quando il 25 agosto in Brasile veniva colpito a morte Raimundo dos Santos Rodrigues. Nella Vale do Pindaré, Stato del Maranhão, Raimundo faceva parte del Conselho Consultivo da Reserva Biológica do Gurupi che si batte contro la deforestazione illegale in un’area protetta. Aveva già ricevuto numerose minacce per questa sua attività e aveva anche sporto denuncia nel novembre 2014. È stato ucciso lo stesso nella sua casa di Bom Jardim.
Pochi giorni dopo, il primo settembre, per volontà di Papa Francesco diventava ufficiale anche per i cattolici la Giornata del Creato, in comunione con i fratelli delle Chiese ortodosse. Ebbene: proprio in quel giorno un altro leader locale veniva ucciso nelle Filippine per il suo impegno a fianco delle popolazioni indigene, che difendono le loro terre. In quello stesso Paese, e per lo stesso motivo, era stato ucciso, nell’ottobre 2011, padre Fausto Tentorio, missionario del Pime. In un villaggio della provincia di Surigao del Sur, sull’isola di Mindanao, Emerico Samarca era il direttore dell’Alternative Learning Center for Agricultural and Livelihood Development (Alcadev), una scuola che a partire dal rapporto con la terra provava a radicare le comunità tribali locali nei villaggi della foresta. L’ha portato via un gruppo paramilitare insieme a due abitanti del villaggio: li hanno ritrovati tutti e tre sgozzati, mentre l’azienda agricola dell’Alcadev veniva data alle fiamme.
Sempre nelle Filippine e sempre a Mindanao, il 27 gennaio scorso è stata colpita un’altra attivista indigena, Teresita Navacilla. La donna era una delle promotrici del movimento locale che si oppone alla realizzazione della miniera di King-king nel distretto di Pantukan nella Compostela Valley. In gioco c’è quello che viene considerato il secondo maggiore giacimento di oro e rame del Paese, sul quale due compagnie – la Nationwide Development Corporation e la St. Augustine Gold and Copper Limited – hanno ottenuto dalle autorità locali i diritti di estrazione. Il progetto prevede la realizzazione di una miniera a cielo aperto, togliendo di mezzo le popolazioni tribali locali. È per piegare la loro opposizione che un sicario ha sparato a Teresita Navacilla: la donna è morta tre giorni dopo in ospedale.
Poi è arrivato il marzo 2016, mese terribile per gli attivisti dell’ambiente nel mondo. Alla morte di Berta Cáceres, sempre in Honduras, ha fatto seguito il 15 marzo l’uccisione di Nelson Garcia, anche lui membro del Consiglio civico delle organizzazioni popolari e indigene (Copinh), lo stesso organismo della Cáceres. Alcuni killer l’hanno ucciso sparandogli in faccia a Rio Chiquito, dove la mattina stessa un presidio di 150 persone organizzato dal Copinh era stato sgomberato dalle autorità pubbliche in uno dei tanti terreni contesi. Confermando così l’Honduras come tragica capitale di queste morti: secondo l’ong Global Witness sono stati 101 gli attivisti ambientalisti uccisi in questo Paese tra il 2010 e il 2014.
Sempre in Centramerica, ma nel vicino Guatemala, il giorno dopo è toccato a Walter Méndez Barrios, un noto ambientalista locale. Gli hanno sparato il 16 marzo fuori dalla sua casa a Las Cruces, nel dipartimento di Petén. Impegnato da una vita per la difesa delle risorse naturali della Reserva de la Biósfera Maya, nelle settimane precedenti alla sua uccisione aveva puntato il dito contro la diga di Boca del Rio e, soprattutto, sull’impatto ambientale devastante della produzione di olio di palma in Guatemala, la cui espansione sta causando la distruzione della foresta pluviale del Petén.
Il 21 marzo, è stata la volta di uno dei Paesi più martoriati dell’Africa di oggi, la Repubblica democratica del Congo, con l’uccisione di un sacerdote, padre Vincent Machozi, religioso degli Agostiniani dell’Assunzione. La sua storia è quanto mai emblematica dell’intreccio inseparabile tra la difesa dei popoli indigeni e le questioni ambientali, proprio come descritto dalla Laudato Si’. Padre Vincent dava voce infatti alle atrocità subite nel Nord del Kivu dalle popolazioni nande, in quell’intreccio perverso tra politici corrotti, milizie, interessi sullo sfruttamento di risorse naturali (il coltan, in particolare utilizzato per l’industria tecnologica e bellica) che alimenta il conflitto in R.D. Congo. Da quando era rientrato nel Paese nel 2012, dopo alcuni anni negli Stati Uniti, padre Machozi aveva ricevuto numerose minacce di morte e sapeva bene di essere un obiettivo. Alcuni testimoni hanno raccontato che, a chi gli sparava, prima di morire avrebbe detto: «Perché uccidi?».
A chiudere il marzo di sangue di questo 2016, il giorno 22, è stato ucciso in Sudafrica Sikhosiphi Rhadebe, presidente dell’Amadiba Crisis Committee, un gruppo fondato nel 2007 per la difesa dei diritti della comunità di Xolobeni. Rhadebe era in prima linea, in particolare, nella campagna contro la realizzazione di una miniera a cielo aperto di titanio da parte di una società locale controllata dal grande gruppo australiano Mineral Commodities. Un altro progetto che spazzerebbe via dalle loro terre le comunità locali, mettendone a rischio la sopravvivenza.
All’elenco vale poi la pena di aggiungere una morte avvenuta nel 2012, ma tornata a far parlare di sé in aprile in Cambogia: è la storia dell’ambientalista Chut Wutty, ucciso per le sue denunce sul disboscamento illegale delle foreste dei Monti Cardamomi, nel Sud-ovest del Paese. La sua storia è tornata d’attualità perché una regista inglese, Fran Lambrick, ha realizzato un documentario sulla sua vicenda; ma le autorità di Phnom Penh ne hanno vietato la proiezione nel Paese. Il clamore sollevato è diventato, però, l’occasione per parlare anche di Sieng Darong e Sab Yoh – due forestali uccisi nel novembre 2015 nella foresta di Preah Vihear, presumibilmente anche loro dalle compagnie che abbattono illegalmente gli alberi per vendere il legno pregiato – e delle storie di quattro ambientalisti cambogiani, che si trovano in carcere per la loro opposizione a due progetti riguardanti una diga idroelettrica e una cava di sabbia.
Infine, per le sue attività contro le deforestazioni illegali in Messico, dal mese di novembre si trova in carcere anche Ildefonso Zamora Baldomero, uno dei leader della comunità indigena Tlahuica di San Juan Atzingo, una località a ottanta chilometri a Sud-ovest di Città del Messico. Ufficialmente è accusato di aver partecipato a un furto, ma Amnesty International ha sollevato forti dubbi sui testimoni che lo accusano. Per la sua attività contro le deforestazioni illegali Ildefonso ha già perso suo figlio Aldo, ucciso in un agguato nel 2007.
Tanti nomi, tante storie, tanti luoghi. E sono solo la punta dell’iceberg: quando questi attivisti non sono legati a grandi gruppi internazionali, infatti, la loro morte finisce relegata in poche righe di cronache locali, impossibili da ritrovare. La verità è che Laudato Si’, nel mondo di oggi, non è affatto una parola “sdolcinata”, ma il grido di tanti martiri. Accorgersene è il primo passo per uscire anche in questo ambito dalla “globalizzazione dell’indifferenza” che Papa Francesco tante volte ha denunciato.