Luigi Montagnini, anestesista rianimatore, e negli ultimi tre anni vicedirettore di Medici senza frontiere, racconta la propria esperienza nel mondo. A partire dai campi di lavoro con il Pime
«Grande rabbia e frustrazione». Il messaggio arriva via sms da Luigi Montagnini. È stato bombardato un altro ospedale: quello di Al Quds, ad Aleppo in Siria, supportato da Medici senza frontiere. Era il principale ospedale pediatrico dell’area: 50 le vittime, tra cui donne e bambini, medici e infermieri. Con Luigi c’eravamo sentiti poco prima per questa intervista. Originario di Luino in provincia di Varese, 43 anni, medico anestesista rianimatore all’Ospedale Gaslini di Genova, negli ultimi tre anni è stato vicepresidente di Medici senza frontiere (Msf) Italia. Ed è stato fra coloro che hanno denunciato con forza come in alcuni Paesi, in Siria e Yemen in particolare, gli ospedali siano diventati un bersaglio. Il percorso che ha portato Luigi a impegnarsi a livello internazionale con Msf parte da lontano. Nella sua camera conserva appeso un poster con lo slogan “Il mondo è il mio mondo”, titolo di un convegno negli anni Novanta dell’Azione Cattolica Studenti, di cui è stato segretario generale. «In quegli anni organizzavamo campi di lavoro con il Pime, per supportare progetti in missione», ricorda. Oggi le sue “missioni” sono quelle con Medici senza frontiere, organizzazione laica e aconfessionale che fornisce assistenza medica in 65 Paesi, rispondendo alle emergenze ma anche supportando la creazione di ospedali e strutture sanitarie in un’ottica di lungo termine.
Perché il bombardamento di ospedali è diventato frequente?
«È diventato uno strumento di guerra. Quelli che dovrebbero essere luoghi assolutamente intoccabili sono presi di mira a seconda del territorio in cui si trovano. Se si trovano nella zona dei nemici, li si bombarda. Contro qualsiasi principio umanitario».
Si tratta di azioni deliberate?
«In Siria il governo di Bashar al-Assad usava il lancio di barili di tritolo dagli elicotteri. Io stesso, nel 2013, nel Nord della Siria ho assistito all’arrivo di feriti da un altro ospedale. All’inizio non capivamo perché arrivassero con medicazioni già fatte. Poi ci siamo resi conto che provenivano da altre strutture sanitarie che erano state bombardate. Altre volte ho visto usare il sistema del double tap: lanciano una prima bomba, aspettano che la gente arrivi per i soccorsi e dopo poco sganciano la seconda. Quindi si tratta di attacchi assolutamente mirati e voluti».
C’è un caso che ti ha coinvolto più da vicino?
«In Afghanistan, nell’ottobre del 2015, un raid degli Stati Uniti ha bombardato il nostro ospedale a Kunduz. L’avevamo aperto quattro anni prima ed ero stato lì per organizzare la terapia intensiva e la sala operatoria. Ne eravamo fieri: era il nostro primo “trauma center” e per la sua posizione strategica serviva sia le vittime di guerra che i feriti per traumi civili. Tutte le forze in campo avevano le nostre coordinate gps, che corrispondevano al padiglione delle sale operatorie. La notte in cui è iniziato il bombardamento abbiamo subito avvisato il governo afghano, le forze Nato e il governo americano, ma l’attacco non è stato interrotto, è proseguito per due ore. Siamo certi che avessero ricevuto le nostre comunicazioni perché abbiamo avuto dei riscontri. Abbiamo chiesto un’indagine indipendente su quanto accaduto».
Sempre stato in zone di guerra?
«Di conflitto o di emergenza post conflitto. La mia prima missione con Msf fu in Liberia nel 2006: non c’era più la guerra, ma mancavano strutture sanitarie di base. Lo stesso in Sud Sudan nel 2008: chiuso il conflitto con il Nord Sudan, c’era però una situazione di stallo totale nel campo della sanità».
Durante l’università hai frequentato il Pime. Quando hai deciso che saresti partito?
«Non c’è un momento preciso. Crescendo hai degli stimoli, ti poni delle domande e diventa naturale fare delle scelte. Credo che tutto sia stato molto lineare nella mia vita. Ho deciso di fare Medicina perché mi piaceva l’idea di fare qualcosa di molto pratico per gli altri. A un certo punto capisci che c’è altra gente al di fuori del tuo contesto che ha bisogno di cure mediche e ti chiedi: “Perché no? C’è bisogno, e se io posso rispondere a questo bisogno, ben venga”».
Come ti sei preparato?
«A trent’anni, finita la specialità, ho deciso di fare un’esperienza “test” in un ospedale missionario in Zambia. Una volta tornato, mi sono iscritto a un corso di perfezionamento in Medicina tropicale. Per imparare bene l’inglese, mi sono licenziato dal mio ospedale in provincia di Varese e ho lavorato per un anno a Londra. A quel punto avevo già contattato Msf, e nell’ottobre del 2006 sono partito per la Liberia. Da allora compio una missione l’anno. Sono stato in Sud Sudan, Nigeria, a Gaza, in Afghanistan, Yemen, Siria».
Quanto dura una missione?
«Di solito un mese. Essendo anestesista rianimatore mi occupo di emergenze e Msf pone dei limiti di tempo, perché il livello di usura e tensione è elevato. Non ho mai fatto la scelta drastica di lasciare il mio lavoro in Italia. La mia idea è sempre stata quella di sviluppare competenze nel Nord del mondo per poi riversarle nel Sud del mondo».
Cosa provi quando torni?
«Mi rendo conto di essere un privilegiato. Tocchi con mano delle situazioni e, tornato a casa, ti accorgi che qui, nella migliore delle ipotesi, mancano dei pezzi di informazione. Di alcune guerre, come quella che si combatte per procura in Yemen, non si parla affatto. Quando torno vado a parlare nelle scuole, in gruppi e parrocchie: mi aiuta a rielaborare quello che ho visto, a non farlo scivolare via. Un’esigenza che è stata forte uscito dalla Striscia di Gaza: un milione di persone vivono in prigione, alcuni sono terroristi ma la stragrande maggioranza sono persone normalissime che hanno avuto la sfortuna di vivere lì».
Il posto più bello che hai visto?
«L’oceano in Liberia. Sorvolare le montagne dell’Hindu Kush, la catena dell’Himalaya che entra nel Nord dell’Afghanistan, regala emozioni incredibili».
Quanto conta il desiderio di avventura?
«Se uno stile di vita semplice non ti richiamasse l’essenzialità che hai nel cuore, la prossimità con gente che ha meno di te, diventerebbe difficile partire. Una buona dose di follia fa parte del bagaglio di ogni operatore umanitario».
Provieni da un percorso di fede. Msf però è un’organizzazione laica, come vivi questo aspetto?
«Ho scelto un’organizzazione aconfessionale perché sentivo il bisogno di slegare l’operato sul campo da qualsiasi connotazione di proselitismo.Vivo questo aspetto come un volermi spogliare per essere il più possibile prossimo alle persone che vado a soccorrere. Metto al primo posto il mio essere un medico. La mia religione a quel punto diventa far bene il mio lavoro. Personalmente interpreto però il mio essere medico come una missione, un mandato, qualcosa che non riguarda solo me e di cui non rispondo solo io. Quelle con Msf si chiamano “missioni” ed è curioso che, nel momento in cui scelgo di mettere da parte la mia identità e le mie radici, io chiami questa esperienza “missione”. Questa assonanza è come un richiamo, mi rimanda a qualcosa che va oltre».