San Suu Kyi in Thailandia: le richieste dei migranti birmani

San Suu Kyi in Thailandia: le richieste dei migranti birmani

Un milioni e quattrocentomila migranti provenienti dal Myanmar lavorano in attività disagiate o pericolose nel Paese che l’ex leader dei diritti umani – oggi ministro degli Esteri – visita per la prima volta. E sullo sfondo resta sempre il dramma dei Rohingya

 

Da giovedì 23 giugno, il ministro degli esteri birmano e Premio Nobel per la Pace Aug San Suu Kyi è in Thailandia per una visita di tre giorni. Visita significativa, perché per lei, fino a pochi anni fa incarcerata dal regime militare e simbolo della ritrovata democrazia nel suo Paese, sarà la prima da esponente del governo birmano, in una Thailandia sottoposta da maggio 2014 al controllo dei generali. Ma soprattutto sarà una viaggio importante per i molti birmani, ufficialmente 1,4 milioni, che lavorano oltreconfine in attività disagiate o pericolose. Aung San Suu Kyi, che visiterà alcune comunità di concittadini, in particolare nella città di Sakhon Nakhon, centro dell’industria locale della pesca, incontrerà anche le autorità thailandesi e firmerà un accordo con il ministero del Lavoro thailandese. Un atto che sancirà una maggiore tutela dei lavoratori del Myanmar (ex Birmania), in maggioranza impiegati nell’edilizia, nell’industria ittica e nell’agricoltura che svolgono un importante ruolo nell’economia thailandese. Sovente però senza documenti legali e tutele e quindi con ampie aree di sfruttamento. Sancita, oltre a maggiori possibilità di accedere a assistenza sanitaria e legale, anche la possibilità di un ritorno in tempi brevi – 30 giorni anziché dopo i tre anni attuali – per coloro che arriveranno all’estensione massima, quadriennale, del permesso di lavoro.

Quello dei migranti, sicuramente un apporto importante all’economia thailandese in attività poco appetibili per la popolazione locale, comincia a essere visto e apprezzato anche nell’ottica di una popolazione in invecchiamento rapido e, contemporaneamente, in una scarsa produttività e qualificazione della forza-lavoro locale.

Tuttavia, in modo crescente e anche in parallelo con la crescita del Paese d’origine e ancor più con le possibilità future garantite dall’immensa quantità di investimenti stranieri gestiti a fatica dalla leadership in una carenza ancora sostanziale di infrastrutture, gli emigrati chiedono a Aung San Suu Kyi di contribuire a eliminare interessi e corruzione che incentivano discriminazione di possibilità e di redditi tra i 55 milioni di birmani, in modo da non avere la necessità di emigrare.

Alcune organizzazioni ambientaliste hanno annunciato iniziative di protesta in occasione della visita per evidenziare i potenziali danni provocati da progetti energetici a cui si oppongono comunità locali; ma vi è attesa anche per quanto la “Signora della democrazia” birmana potrebbe segnalare alla giunta militare al potere a Bangkok e al governo da essa controllato riguardo libertà di espressione e diritti umani.

Infine, con ogni probabilità, la ministro e consigliere di Stato birmana, si troverà a rispondere alla stampa locale e internazionale a domande sulla situazione dei Rohingya, la minoranza di fede musulmana a cui il governo birmano nega cittadinanza e diritti nonostante vivano in maggioranza e da lungo tempo nelle regioni occidentali del Paese. La persecuzione avviata contro di loro dagli estremisti buddhisti dal giugno 2012 ha costretto almeno 200mila Rohingya a cercare rifugio in campi profughi all’interno e molti a una emigrazione rischiosa gestita dai trafficanti. Una situazione che impedisce ogni possibilità di rientro anche ai forse 300mila Rohingya da un quarto di secolo ospiti tollerati e in condizioni di grave disagio in centri di raccolta in Bangladesh. Finora Aung San Suu Kyi – come pure la sua Lega nazionale per la democrazia, al potere in Myanmar dopo le elezioni dell’8 novembre 2015 – hanno sostanzialmente mancato di rispondere a questa emergenza, che rischia di accendere tensioni con i buddhisti maggioritari nel Paese. Addirittura, il 21 giugno, ai diplomatici e politici birmani è stato chiesto di non utilizzare il termine “Rohingya” che potrebbe indicare un qualche riconoscimento da parte ufficiale di questa popolazione.