L’imprenditore italiano in Bangladesh: «Che cosa posso fare qui?»

L’imprenditore italiano in Bangladesh: «Che cosa posso fare qui?»

Conosceva bene molte delle vittime della strage Giuseppe Berto, imprenditore padovano da quasi vent’anni in Bangladesh, amico di tanti missionari. Per «Mondo e Missione» nel 2009 aveva scritto una testimonianza che – riletta oggi – può aiutare ad andare oltre certe semplificazioni sugli imprenditori tessili occidentali che producono in Bangladesh

 

Con la strage di Dhaka il mondo ha scoperto il Bangladesh. E le storie degli imprenditori italiani uccisi hanno riportato in primo piano la questione del lavoro nell’industria tessile locale, figlia delle contraddizioni dell’economia globale di oggi. Se ne era parlato per un po’ nel 2013, dopo il crollo al Rana Plaza. Ma – come al solito – abbiamo poi girato pagina molto in fretta.
Ora il tema riemerge, perché ci tocca da vicino. Ma la cosa peggiore – in un momento del genere – è dare risposte facili, spaccando il mondo a metà tra sfruttatori e sfruttati. La situazione del Bangladesh non è questa. E se restano problemi seri legati alla dignità del lavoro, non è colpevolizzando un’intera categoria che li si risolve (magari poi continuando da parte nostra a comprare le stesse T-Shirt, senza farsi troppe domande).
Per questo motivo rilanciamo oggi una testimonianza che su «Mondo e Missione» avevamo pubblicato nel 2009. A firmarla è un imprenditore padovano, Giuseppe Berto, che dal 1998 ha aperto in Bangladesh un’azienda tessile che dà lavoro a più di 200 persone. In queste ore Berto si trova a Padova in vacanza, ma ha vissuto la tragegia di Dakha in prima persona: conosceva bene molte delle vittime, come ha raccontato al Mattino di Padova. «Piango disperato all’idea che siano morti. Erano persone davvero per bene, che facevano tutto il possibile per aiutare gli ultimi di Dacca», dice oggi. «Tornerò di certo alla metà di luglio ma non so cosa pensare – continua Giuseppe Berto nell’intervista al quotidiano locale -. Il clima era già teso anche se non si credeva che l’Is avesse così largo spazio. Ora dovrò consultarmi anche con l’ambasciatore Palma. Da una parte è vero che per gente che viaggia come noi il rischio è ovunque: a Orlando come a Parigi, a Bruxelles come a Istanbul, ma questa è un’aggressione orribile e drammatica al cuore dell’imprenditoria internazionale del tessile che vive e lavora nella capitale del Bangladesh».
Nel 2009 – quando uscì l’enciclica sociale di Benedetto XVI «Caritas in Veritate» – attraverso padre Franco Cagnasso, missionario del Pime in Bangladesh, avevamo chiesto a Giuseppe Berto di commentarla per Mondo e Missione dal punto di vista di un imprenditore italiano a Dhaka. Ne era venuto fuori un quadro un po’ diverso rispetto allo stereotipo dell’azienda avida che delocalizza solo in cerca del massino profitto. Crediamo che anche rileggere ora quanto ci aveva scritto, provando ad andare oltre le semplificazioni, possa essere un modo per rispondere davvero all’orrore di Dhaka.

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Duecento dipendenti, fatturato annuo: 13 milioni di dollari, una struttura di 11 mila metri quadrati (che sta per raddoppiare), dove produciamo tessuti per abbigliamento partendo da filati provenienti dall’India. I nostri tessuti vanno a confezionisti locali che lavorano esclusivamente per l’esportazione. Il 38 per cento dei nostri tessuti finisce poi a lavoratori impiegati nel nostro settore confezioni con sede a Padova (circa tremila dipendenti), il resto a confezionisti che lavorano per grandi catene di distribuzione. Questo l’identikit dell’azienda che dirigo, la Eos Textile Mills Ltd, insediata in Bangladesh undici anni fa.

La mia avventura imprenditoriale ha una storia alle spalle. Io sono uno dei tre figli del titolare di un’azienda fondata nel lontano 1887. Dopo il servizio militare, ho preso un master in business administration, anche se il mio sogno era fare il maestro di sci. Ma, una volta buttatomi nel lavoro, mi sono subito appassionato. Da bambino – al mio paese, tremila anime – ho avuto come compagni di giochi ragazzi di famiglie meno abbienti della mia. Mi sentivo un po’ in colpa per quello che io avevo e gli altri no. Il mio sogno, fin da giovane, era riuscire a «equilibrare» un po’ la situazione.
Quando comincia la mia attività di impresa, le cose inizialmente vanno benino. All’epoca avevamo due aziende: una tessile e l’altra di confezione. Negli anni Ottanta, però, la situazione si complica. Intorno ai trent’anni mi cade addosso la responsabilità dell’impresa e vengo chiamato a scelte importanti. Siamo riusciti a fare una ristrutturazione «morbida» senza subire neppure uno sciopero. Da 500 dipendenti siamo passati a 150 nel giro di un anno. Utilizzando tutti gli strumenti a disposizione (cassa integrazione speciale, prepensionamenti, cooperative…), abbiamo tagliato il personale in armonia con i sindacati.
Intorno agli anni Ottanta-Novanta, comincio a girare in vari Paesi dell’Asia. La grande miseria che vedo mi risveglia la sensazione provata da ragazzo. Cosa posso fare per questa gente? Decidiamo di chiudere l’azienda di confezioni in Italia ed aprire un’attività in Romania, poi in Cina e infine in Bangladesh.

GUIDATI ANCHE da padre Pierluigi Lupi, un saveriano, abbiamo fatto il salto. Lui mi ha aiutato ad inserirmi, così come nel reclutamento del personale e nella lingua. Abbiamo scelto questo Paese perché godeva di un canale privilegiato nelle esportazioni verso l’Europa (con esenzione di dazi) e perché era più povero  di altri. Internazionalizzare l’azienda era anche un’opportunità per far crescere i miei figli, i quali, con  molto impegno, ora gestiscono le attività in Italia. Non ho mai imposto loro di continuare l’attività, eppure mi hanno seguito entrambi, dimostrando notevoli capacità.
Detto del nostro lavoro, che significa essere imprenditori attenti ai valori del Vangelo? Che significa provare a costruire un’economia dal volto umano?
Io penso, innanzitutto, che per un’azienda il profitto sia doveroso e indispensabile, a condizione che venga  usato per la continuità dell’azienda stessa, in una visione di lunga prospettiva. Il patrimonio di un’impresa sono i lavoratori, il capitale è rappresentato dai clienti. Tutti questi «attori» debbono produrre, insieme, profitto, ma non con la finalità di «ingrassare» i dirigenti o i soci, come accaduto nella crisi recente. È l’amministrazione del profitto che qualifica il cristiano socialmente impegnato.
Il profitto è sacro, come il posto di lavoro. Il punto è come lo si usa: se serve per comprare uno yacht, dev’essere tassato all’ennesima potenza; se invece rimane all’interno dell’azienda e crea ricchezza, il discorso cambia.
Essere imprenditori responsabili, a mio avviso, significa far fruttare i talenti. Noi oggi esportiamo nei Paesi sviluppati. Ma è tempo che anche i Paesi poveri comincino a partecipare dell’economia globale, secondo regole etiche. Se penso alla nostra azienda, essa genera un forte indotto. Dal 2002, ad esempio, la Manifattura Corona (l’azienda che ho lasciato a mia figlia Francesca) ha acquistato 80 milioni di dollari di manufatti, tutti realizzati con i nostri tessuti, prodotti in Bangladesh.

CHE SIGNIFICA produrre eticamente? Innanzitutto trattare i dipendenti con la stessa dignità con cui sono trattati i livelli superiori. Poi, dare la giusta mercede agli operai. Rispetto al contesto locale, i nostri salari sono abbastanza elevati, ma speriamo di poterli alzare ancora. E soprattutto di insegnare a questa gente un lavoro. In Bangladesh devo adattarmi a fare di tutto: ogni mattina ho dieci manutentori a cui spiego come si interviene sulle macchine. Non fa parte del lavoro di amministratore delegato, ma qui non posso non farlo. Mi piace molto, la vivo come sfida. Perché quando vedo i ragazzi crescere, mi si riempie il cuore di gioia. Etica, infatti, significa anche far crescere le persone. Ho portato, in tempi diversi, 15 lavoratori in Italia per la formazione . È bello vedere che la gente rimane con te e si appassiona.
Mi chiedono talvolta se sono pentito della scelta fatta. No, anche se le difficoltà non mancano. In Bangladesh sono legate soprattutto alla corruzione: se hai bisogno di qualche autorizzazione, devi pagare una bustarella per ottenerla, cosa che non ho mai fatto in Italia. Quanto ai rapporti di lavoro, in questi 10 anni ho avuto solo un episodio di tensione. Un gruppo di ragazzi, che avevo selezionato insieme a padre Lupi, hanno protestato e fatto una serie di richieste. È stato il primo sciopero nella mia vita.

ESSERE IMPRENDITORI responsabili significa anche porre attenzione all’ambiente. Mi batto perché questo Paese, che vive una crisi energetica grave, utilizzi al meglio l’energia che ha. Oggi nella nostra azienda recuperiamo oltre il doppio dell’energia che altri buttano. In Italia era una prassi normale. Per me è stato un dovere, anche se non ottengo un recupero immediato dell’investimento. È stato, se vogliamo, un calcolo economico ed etico: ora essere «verdi» diventa anche economico. Io mi sto impegnando per razionalizzare l’uso dell’energia, cruciale in un’industria delle nostre dimensioni. Con opportuni accorgimenti, penso che si potrebbe ridurre a meno della metà il fabbisogno energetico dell’industria tessile del Paese.
Sembrerà una battuta, ma ho trovato che alcune indicazioni della Caritas in veritate sono già in opera. Penso al metodo Deming (dal nome del suo promotore, uno studioso americano – ndr). La nostra azienda ha riscoperto il Deming nel periodo in cui tutti inseguivano un’organizzazione del lavoro nel segno della parcellizzazione, basata sull’assunto che competenze molto limitate rendono la «sostituibilità» dell’individuo molto elevata. Il metodo Deming, al contrario, valorizzava l’individuo e la sua creatività. Siamo stati fra i primi in Italia ad aver applicato la qualità totale: un tempo si produceva un tessuto con 8-10 difetti ogni 100 metri; grazie alla tecnologia si è scesi a 2. Il miglioramento decisivo – sottolineo – si deve al fatto che sono stati coinvolti direttamente i dipendenti. Nessuno può migliorare il proprio lavoro più di chi lo fa. E non è il capo a risolvere il problema, ma egli si mette al servizio dei suoi dipendenti per aiutarli a capire, per raggiungere gli obiettivi.
I giapponesi, mi si perdoni la battuta, hanno scoperto l’acqua calda. Gesù, duemila anni fa, ci ha spiegato che il capo è il servo dei servi. Personalmente trovo un parallelismo tra l’atteggiamento suggerito dal Vangelo e i presupposti della qualità totale che all’apparenza sembrerebbero antitetici. In realtà, la passione, la dedizione, l’entusiasmo che un imprenditore mette nella sua attività sono una forma di donazione.

LA CULTURA GIAPPONESE si ferma alla creazione dell’utile, ciò che, invece, qualifica l’imprenditore cristiano è che la creazione dell’utile è un momento essenziale, ma finalizzato alla creazione di sviluppo durevole, nel tempo. Nel momento in cui un imprenditore si ubriaca dei successi del momento e si lascia prendere dalla sensazione devastante del potere, allora cominciano i problemi.
Un antidoto per non cadere in tentazione? Per me è passare tutte le mattine davanti alla ferrovia di Dhaka per vedere quanti dormono sotto una tendina. Beninteso: non do l’elemosina a nessuno, non serve a nulla. Meglio investire sull’educazione. È quel che cerco di fare, cercando di insegnare un metodo di lavoro, tirando giù i ragazzi dalle palme e mettendoli davanti ad un computer.