In carica dallo scorso 30 giugno, il presidente filippino vuole riportare su scala nazionale i metodi brutali usati quando era sindaco. E non solo contro i gruppi armati…
La politica del neopresidente Rodrigo Duterte, in carica dal 30 giugno, verso le irrequiete regioni meridionali dell’arcipelago filippino risente insieme del piglio giustizialista che l’ha portato in rotta di collisione con la Chiesa cattolica e della volontà di chiudere decennali fronti di conflitto.
Originario di Davao, maggiore città del Sud di cui è stato sindaco per un ventennio, Duterte ha ben presente i problemi della regione, ma ne conosce anche le ragioni. Non si tratta solo della volontà di dominio dell’islam radicale sulle isole tese verso gli arcipelaghi perlopiù islamici di Malaysia e Indonesia o le istanze indipendentiste dei musulmani ridotti a minoranza e poi soverchiati economicamente dai cristiani immigrati da altre regioni. Sono tanti i poteri a confronto sul territorio, sovente con connessioni nella lontana capitale Manila; troppe le mire economiche sulle risorse che coinvolgono anche aziende multinazionali; molti gli interessi strategici in gioco in terre di frontiera ma anche di transito, il cui controllo è vitale sia per le potenze regionali sia per gli Usa. Ma anche per le centrali del jihadismo internazionale: ultimo, l’autoproclamato califfato islamico, a cui ha giurato alleanza Abu Sayyaf, il gruppo più belligerante, sebbene ormai di limitate dimensioni, già legato ad Al Qaeda e ai suoi emuli nel Sud-Est asiatico.
Così Duterte è andato all’offensiva e dopo avere teso la mano ai gruppi disposti a intavolare una trattativa seria sui colloqui di pace e di proseguire – come il Fronte islamico di liberazione Moro – sulla via già aperta del negoziato, bloccata dalle convulsioni politiche e dalla ripresa degli scontri a fuoco nell’ultimo anno. La scorsa settimana ha minacciato direttamente Abu Sayyaf e rincuorato i reparti militari a Basilan, roccaforte del gruppo, e a Zamboanga, caposaldo cristiano di Mindanao.
Il presidente – che ha posato per selfie con la truppa – ha garantito ai soldati che non vi saranno inchieste sul loro comportamento in operazioni militari e che di conseguenza hanno “carta bianca” in azioni che per i critici sono spesso arbitrarie anche per la popolazione civile.
Sabato scorso, infine, Duterte ha incontrato 50 parlamentari di Mindanao nella “sua” Davao, che da primo cittadino ha trasformato in esempio di legalità, utilizzando spesso metodi brutali e squadre di vigilantes. Un esempio che si è impegnato a riportare su scala nazionale e che è già costato la vita a oltre 200 spacciatori e trafficanti di droga, uccisi da poliziotti a cui sono promesse laute ricompense.
Intanto, la Commissione transitoria per il Bangsamoro (“patria islamica”) ha deciso di rilanciare il processo di pace, consolidando e aggregando diversi provvedimenti, in parte già parzialmente applicati, in parallelo con la formazione di una reale autonomia per le aree a maggioranza o forte minoranza musulmana. Un incentivo in questo senso è la volontà di Duterte di perseguire per il Paese un federalismo che richiederà modifiche costituzionali finora eluse.