Oggi la Grecia ricorda l’uccisione e la deportazione dei greci dell’Anatolia tra il 1900 e il 1923. La loro colpa? Essere potenziali nemici, perché non musulmani
“Non c’è più grande dolore sulla terra della perdita della propria terra natia”, scriveva Euripide. Ma forse ce n’è un altro maggiore: quello di morire nel proprio Paese, trucidati nel luogo dove ci si sente più al sicuro. È quanto è accaduto, fra il 1900 e il 1923 a un numero compreso fra 3,5 e 4,3 milioni di sudditi ottomani cristiani armeni, greci e assiri. Furono uccisi in pogrom, deportati, sterminati per fame, fatica e malattie. La loro colpa? Essere potenziali nemici, perché non musulmani.
Chi non morì fu costretto ad andarsene nel 1923. In Grecia, circa 1 milione e 200 mila mikrasiates – greci dell’Asia minore – giunsero da profughi. A loro e soprattutto a chi ha perso la vita il Parlamento greco nel 1998 ha dedicato la Giornata della Memoria per il genocidio dei greci dell’Asia minore. Quattro anni prima, nel 1994, i greci del Ponto, che avevano subito la persecuzione più sistematica, avevano ottenuto un analogo riconoscimento, una giornata per ricordare i loro morti (19 maggio). In entrambi i casi, la Turchia continua a negare che sia avvenuta una pulizia etnica o un genocidio.
Come ogni anno, in Grecia si terranno dibattiti, commemorazioni religiose, eventi pubblici, soprattutto nei territori che hanno accolto più profughi: Salonicco e la Macedonia, e alcune aree di Atene. Nella capitale, l’associazione Magnesia Asia Minore sta facendo pressione perché la fermata di Nicea della metropolitana venga ribattezzata “Nicea 1922” , a ricordo del fatto che questo moderno quartiere quasi cent’anni fa si chiamava Kokkinià ed era diventato il secondo più grande insediamento della Grecia – dopo Salonicco – per i profughi dell’Asia minore. L’associazione chiede anche che altre fermate del metro ateniese portino il nome delle “patrie perdute” (Ionia, Pontos, Eolia, Cappadocia, Costantinopoli, ecc.) perché si trasmetta anche in questo modo la memoria.
L’identità greca moderna, infatti, nasce dal connubio fra greci della madrepatria e mikrasiates, discendenti degli antichi coloni della Grecia classica. Nel 1923 più del 25 per cento della popolazione greca era costituito da profughi dall’Asia minore. La nazione ellenica sostenne uno sforzo immane per integrare questa gente, fuggita dalle persecuzioni turche, portando in salvo spesso soltanto la propria vita.
La scelta del 14 settembre per questa ricorrenza non è casuale. Uno degli eventi più tragici della “Catastrofe” dell’Asia minore – la guerra greco-turca del 1919-22 che poi portò alla cacciata dei greci ottomani nel 1923 – fu la riconquista da parte dell’esercito turco di Smirne il 9 settembre 1922. La città, che era una piccola Parigi dell’Egeo, aveva 375 mila abitanti: 165 mila erano greci; il resto, ebrei, armeni e turchi. Cosmopolita e con un’intensa vita culturale, Smirne era una metropoli soprattutto ellenica.
Quando il 13 settembre 1922 scoppiò un incendio nei quartieri greco, armeno e franco (quello europeo), circolò voce che fosse stato appiccato dai turchi, ansiosi di espellere l’elemento cristiano. La responsabilità resta controversa, ma è certo che dai 10 ai 15 mila greci perirono nella tragedia, mentre 250 mila cristiani riuscirono a fuggire (il numero include anche gente dell’entroterra, rifugiatasi a Smirne). L’incendio fu l’ultimo atto della vendetta turca: nei giorni precedenti, ci furono uccisioni di greci e armeni e il metropolita Chrysostomos, che tentava di fare da paciere, venne sgozzato sulla pubblica piazza, con una ferocia degna dell’Isis.
La sorte di Smirne resta il simbolo più forte della fine della millenaria presenza ellenica in Anatolia, che ha prodotto Bisanzio e il suo impero, le magnifiche chiese rupestri della Cappadocia e le fiorenti città commerciali lungo il Mar Nero, nel Ponto. Nel 1923, in nome di una Turchia etnicamente omogenea e musulmana, con l’ausilio del trattato di Losanna Mustafà Kemal cacciò gli ultimi mikrasiates sopravvissuti. Furono autorizzati a restare solo qualche migliaio di greci a Costantinopoli e nelle isole di Tenedos e Imbros (quest’ultima ha dato i natali all’attuale patriarca ecumenico Bartolomeo).
Lo stesso trattato, che sancì il primo scambio ufficiale di popolazioni nella Storia, allontanò oltre 300 mila turchi dalla Grecia. Integrarsi in una madrepatria sconosciuta fu una sfida anche per loro. Se in Grecia i mikrasiates venivano chiamati da alcuni con disprezzo tourkosporoi (seme dei turchi), in Turchia i musulmani greci erano etichettati come yari gavur (mezzi infedeli).
Dagli anni Ottanta in poi, in Grecia il processo di recupero della memoria ha portato a rivalutare le origini anatoliche di un’importante parte della popolazione ellenica attuale. Sono sorti monumenti e memoriali; biblioteche e istituzioni culturali indagano sul passato. I discendenti dei profughi, ormai integrati con il resto dei greci, vogliono ricordare i loro nonni e bisnonni come nel monumento ai mikrasiates a Salonicco, nel comune di Ambelokipos, dove un prete ortodosso con un’icona in mano tende il braccio, come gli uomini, le donne e i bambini in fuga, in direzione delle cupole delle chiese della patria anatolica, perduta per sempre.
Le fotografie che accompagnano l’articolo sono tratte dai siti https://mikrasiatwn.wordpress.com e http://www.pontos-news.gr/
Nella foto all’inizio dell’articolo: i resti della cattedrale di Smirne di Aghia Fotinì, dopo l’incendio della città. Nella chiesa il metropolita Chrysostomos tenne la sua ultima messa prima del suo martirio