Missionarie, ma innanzitutto donne. Vicine ai più poveri e dimenticati nelle situazioni della vita quotidiana. Come le tre saveriane uccise in Burundi e come ci racconta la loro consorella suor Teresina Caffi
Trascorre la sua vita tra l’Italia e la Repubblica Democratica del Congo, attraversata, una volta di più lo scorso settembre, da terribili violenze nella capitale Kinshasa. Suor Teresina Caffi (nella foto), missionaria saveriana, ha dedicato le sue energie migliori, la sua passione e le sue competenze alla popolazione congolese, camminando spesso lungo le strade funestate dalla guerra che continua a violentare soprattutto le regioni orientali di questo Paese e cercando di promuovere percorsi di ricerca di giustizia, pace e riconciliazione, a cominciare dal basso. Con la stessa passione e lo stesso amore avevano donato le loro vite alla gente del Congo le tre consorelle Olga Raschietti, Lucia Pulici e Bernardetta Boggian. Dopo lunghi anni in prima linea in una delle terre più martoriate d’Africa, sono state uccise nella notte tra il 7 e l’8 settembre 2014 nella loro casa di Kamenge, in Burundi, dove stavano vivendo gli anni della vecchiaia, sempre a servizio della gente più povera, umile e dimenticata.
Suor Teresina, che ha curato il libro che raccoglie le loro testimonianze, “Va’, dona la vita!” – e che è tra le animatrici della Rete Pace per il Congo – riflette con noi su cosa significa oggi essere donne consacrate che dedicano la propria vita alla missione.
«La missione è la frontiera dell’amore», diceva suor Bernardetta Boggian. Che cosa può significare oggi una simile espressione?
«Ci sono tante frontiere nel nostro cammino umano: si parla di frontiere della scienza, dello sport… Immagino significhi il punto più avanzato, il luogo dove si giocano le sfide maggiori. Bernardetta, che ha condiviso con il popolo congolese lunghi tempi di guerra, percepiva che stava vivendo la più grande delle sfide: osare l’amore ovunque esso ti conduca. Anche a lasciarci la vita. Per ciascuno penso esista una frontiera dell’amore e spesso non siamo noi a sceglierla, ma le situazioni in cui ci troviamo a vivere».
Al di là dei miti e della retorica, chi sono le missionarie: donne “normali” o persone “straordinarie”?
«Assolutamente normali! Basta guardare cosa non fa una madre per suo figlio! A noi è capitata semplicemente un’altra forma di maternità. E se questa maternità comporta un rischio anche per la stessa vita, trovo che questo fa parte della logica del dare la vita. Quante donne ancora muoiono in molti Paesi nel dare al mondo un bambino. Prima di sera sono già sepolte. È la grande avventura del dare la vita».
Le religiose, in quanto donne, riescono a essere effettivamente più vicine alla gente, specialmente nei contesti più difficili e talvolta ostili?
«Ci sono molte differenze personali, per cui dipende da come ciascuna o ciascuno concepisce e vive il suo essere presente in un altro popolo. Detto questo, noi donne svolgiamo attività che di per sé ci mettono nel pieno della vita della gente: andiamo al mercato, ci cuciamo i vestiti, spesso cuciniamo, accogliamo i malati e le loro storie, siamo attente a tutto ciò che è corporeità».
In molti casi, le missionarie vivono nel nascondimento. E se ne scopre la vita magari a causa della morte violenta. Come ricollocare l’una nell’altra? Tornando all’origine di una vocazione e di una scelta?
«Monsignor Christophe Munzihirwa, arcivescovo di Bukavu, nella Repubblica Democratica del Congo, pastore coraggioso ucciso vent’anni fa, diceva: “Morire è… un atto che si prepara durante tutta l’esistenza che lo precede. E il silenzio finale è una parola di grande ricchezza per colui che sa ascoltare dall’interno”. Non si sceglie come morire, ma come vivere. E tale scelta può condurre a questo esito, non necessario, non cercato, ma possibile. Penso che una persona diventa libera quando, per le cose in cui crede, o meglio per le persone con cui vive, è disposta a mettere in conto anche di morire. Allora nulla ti può fermare. Allora soltanto forse cominci, timidamente ma veramente, ad amare».
Perché in questi ultimi anni l’idea e la prospettiva di una scelta di vita missionaria non affascinano più (o molto poco) le giovani donne?
«Penso ci sia un insieme di fattori. La cultura postmoderna in cui viviamo ci fa sembrare impossibile fare scelte definitive. Inoltre, la verginità come scelta di vita mi sembra meno sentita, in un tempo come il nostro che ha rivalutato il valore positivo della sessualità. Non pochi giovani o ragazze, splendidi nella loro volontà d’impegno, nella freschezza dei loro ideali, mi dicono: “Mi piacerebbe venire in Africa, con il mio fidanzato/a…”. Verrà forse il giorno in cui si riscoprirà anche la bellezza del modo “vergine” di fare spazio nella propria esistenza a Dio e ai poveri. Dio e i poveri si meritano anche questo»