Si celebra oggi il Giubileo della Missione. Un migliaio di missionari, con esperienze in varie parti del mondo, si sono ritrovati a Roma per aprire una volta di più il “libro della missione”
«Il Giubileo della Misericordia invita a guardare alla missione ad gentes come una grande, immensa opera di misericordia, sia spirituale che materiale». Seguendo le parole di Papa Francesco, un migliaio di missionari – preti, suore, religiosi e religiose e moltissimi laici – si sono dati appuntamento oggi, 28 ottobre, al santuario della Madonna del Divino Amore di Roma, per celebrare il Giubileo della Missione. Un’occasione anche per fare memoria del centenario della Pontificia Unione Missionaria (Pum) e rilanciare il messaggio del suo fondatore, il Beato padre Paolo Manna del Pime, nella prospettiva di una “rinnovata uscita missionaria”.
Ed è proprio questo il titolo – “Aprire il libro della missione per una rinnovata uscita missionaria” -di uno dei momenti forti di questa giornata, l’intervento del presidente della Commissione episcopale per l’evangelizzazione dei popoli e la collaborazione tra le Chiesa, mons. Francesco Beschi, preceduto dal saluto del direttore di Fondazione Missio e delle Pontificie opere missionarie, don Michele Autuoro.
Ma è soprattutto attorno a sette verbi (sette come le opere di misericordia) – Accogliere, Guarire, Liberare, Proteggere, Riconciliare, Soccorrere, Sperare – che i missionari presenti si sono raccontati e confrontati, hanno riflettuto e hanno condiviso le proprie esperienze.
Dall’Africa all’America Latina, dall’Asia all’Oceania – ma anche dall’Italia, da situazioni geograficamente più vicine a noi, ma che interpellano sempre più la missione – è risuonata l’eco di esperienze, opere, cammini di vicinanza e di riconciliazione, di annuncio e di fraternità. Misericordia donata, ma anche ricevuta. Doni di grazia condivisi in questo Giubileo della missione a conclusione dell’Anno santo straordinario della Misericordia.
«Per me liberare – ci anticipa suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, che da molti anni si occupa di tratta e sfruttamento – significa rompere le catene che rendono schiavi milioni di donne, uomini e bambini in Italia e nel mondo. Persone spesso povere e vulnerabili, trafficate come merci usa e getta». Con lei, don Giampaolo Marta e don Gianantonio Allegri, fidei donum di Vicenza, che hanno vissuto sulla loro pelle – insieme a una religiosa canadese – cosa significa essere privati della libertà e poi essere finalmente liberati. «Rapiti dai miliziani di Boko Haram, nell’Estremo nord del Camerun – ci raccontano – abbiamo vissuto un piccolo inferno che non auguriamo a nessuno. Ma quei 57 giorni sono stati anche un’esperienza di spoliazione, di fraternità, di sostegno reciproco, in cui abbiamo vissuto il miracolo della presenza di Dio e del suo amore. Per questo ci sentiamo di dire che quest’esperienza è stata un tempo di grazia per noi tre e per il nostro cammino personale di conversione».
Sempre in Camerun, suor Paola Vizzotto ha vissuto la missione del “riconciliare” soprattutto nelle carceri di Yaoundé. Un’esperienza dura, ma anche di grande umanità: «La pratica della tortura – ricorda – e delle punizioni corporali, le catene, le umiliazioni… i condannati a morte. In quegli anni ho fatto una profonda e faticosa scuola di umanità e di fede, occupandomi in particolare delle donne, dei minorenni e delle loro pratiche in tribunale, perché altrimenti non avrebbero avuto nessuna possibilità di difendersi». Con lei, padre Amedeo Porcu, della Comunità Villaregia, che ha vissuto il dramma della recente guerra civile in Costa d’Avorio, lavorando specialmente con i giovani e nella formazione, «per poter immaginare dei percorsi di riconciliazione e di futuro».
L’“accogliere” prende forma nelle parole e nell’esperienza di Sara Foschi, della Comunità Papa Giovanni XXIII, missionaria in Bangladesh per 12 anni e ora mamma affidataria qui in Italia; ma anche nella testimonianza di padre Attilio Rossi, dei missionari verbiti, che ha fatto dell’accoglienza la cifra del dialogo interreligioso e interculturale a Taiwan, dove solo l’1% della popolazione cattolica.
Del “guarire” si fanno carico due dottori di Medici con l’Africa-Cuamm, Sara Chiurchiù e Carlo Resti, con esperienze in Tanzania, ma anche Giovanni e Roberta Vai, della Comunità missionaria Viollaregia, che hanno aderito all’iniziativa di Caritas Italiana “Un rifugiato a casa mia”.
Dalla Sierra Leone e dal Ciad, così come dalla più vicina Grecia arrivano le testimonianze del “soccorrere”. Sono quelle di Danilo Feliciangeli e Chiara Bottazzi, volontari Caritas in Grecia, ma anche quella di padre Jose Angel Aguirre, saveriano, che ha vissuto dal di dentro la devastazione materiale e umana provocata dalla guerra.
Una laica e una missionaria hanno interpretato il senso del “proteggere”: suor Paola Gabrieli, delle figlie del Sacro Cuore di Gesù e Clementina Iezzi, infermiera e ostetrica dell’Associazione Laicale Missionaria, che ha trascorso 8 anni in Tanzania e 13 in Zambia.
Infine “sperare”, un verbo che sta al cuore stesso della missione. E che ha avuto come testimoni una famiglia e due laici: Damiano e Francesca Conati, fidei donum della diocesi di Verona in Brasile; Valentina Grigoli, della diocesi di Biella, missionaria in Argentina; e Antonio Di Lisi fidei donum di Monreale in Tanzania.