Nel giro di una settimana Sudafrica e Burundi hanno avviato l’iter per uscire dalla Corte penale internazionale, il Gambia ha annunciato che lo farà e il Sudan ha ventilato una decisione in questo senso. Cosa succederà ora?
Ormai non si tratta più solo del Sudafrica. Venerdì scorso anche il Burundi ha avviato formalmente l’iter per uscire dalla Corte penale internazionale (Cpi), il tribunale internazionale permanente con giurisdizione su genocidi, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Il Gambia ha annunciato la stessa decisione e il Sudan ha dato il suo sostegno accusando nuovamente il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di aver ignorato le preoccupazioni africane circa il ruolo svolto dalla corte.
Il timore di un’uscita a catena dei Paesi africani dalla Cpi rischia di concretizzarsi. Da tempo il Burundi aveva annunciato il ritiro, ma il peso del Sudafrica è ovviamente un altro e il fatto che sia stato proprio questo Paese, il 21 ottobre, ad avviare per primo formalmente l’iter per l’uscita suona come un “via libera” per tutto il continente. L’ipotesi di un effetto domino è tutt’altro che peregrina: durante il vertice di Kigali del luglio scorso alcuni leader africani votarono una risoluzione per definire una tabella di marcia in vista del ritiro dalla Cpi. Alla fine l’Unione africananel documento conclusivo del summit non ne fece accenno. Ma l’Ua stessa è spaccata in due. A Kigali aveva usato, per esempio, parole durissime il segretario del Consiglio economico e sociale dell’Unione africana Joseph Chilengi: «Gli europei vorrebbero imporre le loro soluzioni all’Africa, come con la Corte penale internazionale. È chiaro che la Cpi è parte del problema del sistema giudiziario internazionale. È un problema piuttosto che una soluzione».
L’accusa che viene rivolta alla Cpi è di essere anti-africana. Nata nel 2002, dopo che lo Statuto di Roma che ne prevedeva l’istituzione è stato ratificato da 123 Paesi, ha visto salire sul banco degli imputati solo politici africani. Il ministro gambiano dell’Informazione Sherif Bojang ha detto che, per esempio, la Cpi non è riuscita a incriminare l’ex primo ministro britannico Tony Blair per l’intervento militare in Iraq. E ha aggiunto: «La Corte penale internazionale persegue e umilia solo la gente di colore, soprattutto gli africani». Il diplomatico zambiano ha aggiunto che la Cpi non è affatto internazionale, perché rappresenta solo un terzo dei Paesi del mondo, “Stati Uniti, Russia, Cina e Paesi come la più grande democrazia del mondo, ovvero l’India, non ne sono membri”.
L’uscita di alcuni Paesi africani dalla Cpi finora è stata percepita più come una minaccia che come una possibilità concreta, anche perché uscire dalla Cpi è molto semplice: basta inviare una lettera al segretario generale dell’Onu e dopo un anno l’uscita diventa effettiva. Venerdì 21 ottobre questa lettera però il Sudafrica l’ha mandata davvero (qui il documento), e ieri è stata la volta del Burundi.
Sebbene i giudizi sulla Corte godano di ampia condivisione in Africa, non tutti i Paesi però vedono l’uscita come una soluzione. Dietro le posizioni di alcuni leader africani, oltretutto, ci sono ben altre motivazioni. In Burundi il presidente Pierre Nkurunziza ha suscitato una fortissima opposizione interna candidandosi per il terzo mandato, e ha represso il dissenso con la violenza. Anche Yahya Jammeh, presidente del Gambia, potrebbe essere accusato di violazione dei diritti umani e crimini contro l’umanità. In Sudafrica i leader politici non corrono questo rischio ma il governo è stato ampiamente contestato lo scorso anno per la scelta di non arrestare Omar al Bashir, l’ex presidente del Sudan incriminato dalla Cpi, mentre era in visita a Pretoria.
Tra i Paesi che restano a favore della Cpi il primo a prendere una posizione ufficiale è stato il Botswana, altri continuano a supportare la Cpi senza dirlo apertamente. Al Summit di Kigali un gruppo di Paesi si è opposto all’appello per un’uscita in massa dalla Cpi: oltre al Botswana, Nigeria, Senegal, Costa d’Avorio e Tunisia. A opporsi all’uscita dalla Cpi sono anche le organizzazioni della società civile, che sostengono che la Corte, nonostante le sue imperfezioni, è l’unico strumento per garantire giustizia alle vittime e evitare l’impunità di chi, dietro la protezione del potere, pensa di poter violare i diritti umani.
In Sudafrica i vescovi hanno firmato un appello in cui propongono che il governo sudafricano, invece di ritirarsi dalla Corte, si attivi perché i Paesi africani prendano una posizione comune per riformarla, proponendo tra l’altro che il potere di conferire una causa alla CPI sia tolto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU (dominato dai suoi cinque membri permanenti: USA, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia) e assegnato all’Assemblea Generale dell’ONU.
I Vescovi sudafricani inoltre lanciano un appello perché il Sudafrica si adoperi insieme agli Paesi africani per stabilire al più preso una Corte Africana per la Giustizia e per i diritti umani e dei popoli, prevista dagli accordi di Malabo del 2012. “Ora ancora più di prima, vista la crescente instabilità politica, l’Africa necessita di una protezione più forte per le persone vulnerabili nei confronti di leader politici che commettono crimini che scuotono la coscienza dell’umanità, come genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di aggressione” conclude il comunicato.