Una serie di attacchi sulla frontiera con il Bangladesh ha scatenato come reazione un’altra ondata di violenze verso quella che l’Onu definisce «l’etnia oggi più perseguitata a mondo». Una vicenda che riapre anche il nodo dei rapporti tra i miliari e Aung San Suu Kyi in Myanmar
L’uccisione il 9 ottobre di nove poliziotti in posti di guardia presso la frontiera con il Bangladesh (eventi ancora oscuri per molti aspetti a partire da ragioni e responsabilità) ha avviato una nuova ondata persecutoria nello Stato Rakhine, il più occidentale tra quelli che compongono il Myanmar. Vittime ancora una volta, musulmani locali, numerosi nelle regioni confinarie con il pure musulmano Bangladesh, ma soprattutto i Rohingya, “l’etnia oggi più perseguitata a mondo” per definizione Onu. Circa un milione in Myanmar e 300.000 profughi in Bangladesh, i Rohingya sono dei reietti nell’ex Birmana: persecuzione e reclusione in campi, una cittadinanza negata da sempre è quanto loro destinato dal governo birmano che li definisce migranti illegali e non riconosce loro neppure la condizione di profugo.
Dopo trattative pressanti a cui ha partecipato anche l’Ufficio Onu per i rifugiati, il 2 novembre è stato concesso ad alcuni diplomatici accreditati a Naypyidaw di visitare le aree che nelle settimane precedenti sono state al centro di gravi violenze e di una serie di abusi denunciati da più parti ma negate dalle autorità come falsità. Tra queste, le notizie di stupri i gruppo compiuti da militari birmani su donne rohingya durante i rastrellamenti nelle aree delle operazioni, precluse a operatori umanitari e organizzazioni internazionali.
Una situazione che ha posto in ulteriore difficoltà la leader della maggioranza governativa, ministro degli Esteri e consigliere nazionale Aung San Suu Kyi. La Premio Nobel per la Pace 1991 ha finora centellinato dichiarazioni e ancor più azioni riguardo la condizione dei Rohingya, ha accettato la tesi ufficiale di violenze istigate da gruppi estremisti di ideologia islamista ma non ha apertamente condannato le violenze contro la minoranza, limitandosi a chiedere “moderazione” ai generali. Accreditando ulteriormente la tesi che, davanti alla pressione internazionale, il Myanmar stia perseguendo una politica di espulsione di fatto prima di essere costretto a accettare un compromesso che accrediti i Rohinga come cittadini birmani a fianco delle altre decine di etnie del complesso mosaico che compone il Paese.
Allo stesso tempo, le operazioni belliche, condotte (come la costituzione consente) in modo indipendente dal controllo civile, ha incrinato il rapporto nei mesi scorsi sempre più collaborativo tra autorità civili e militari. Nessuna notizia richiesta sulle operazione nel Rakhine è stata infatti inoltrata al governo nei primi dieci giorni successivi all’attacco del 9 ottobre, in particolare riguardo gli abusi denunciati sui civili. Fonti governative parlano ora di cinque soldati e di 33 militanti uccisi, questi ultimi parte di un gruppo di 400 effettivi che per i vertici militari sarebbero soprattutto di etnia Rohingya.
Forte l’imbarazzo di Aung San Suu Kyi che, a Tokyo in visita ufficiale da martedì scorso e per quattro giorni, ha sì incassato un impegno giapponese per aiuti allo sviluppo per il suo Paese per 7,7 miliardi di dollari, ma ha dovuto affrontare ancora una volta con i giornalisti i veri nodi della democrazia birmana. Che sono, poi, il riconoscimento di pari diritti e di pari opportunità per tutti coloro che vivono nel Paese e il controllo delle forze armate su parlamento e governo, concesso da una costituzione da essi scritta e approvata senza possibilità di opposizione nel maggio 2009 con un referendum che neppure il catastrofico tifone Nargis ha potuto fermare.