Lo dice in un’intervista Feyisa Lilesa, l’atleta etiope che alle ultime Olimpiadi aveva varcato il traguardo con le braccia alzate e incrociate per esprimere la mancanza di libertà e democrazia nel suo Paese.
Se il mondo si è accorto di quanto sta accadendo in Etiopia lo si deve a lui. Il 21 agosto Feyisa Lilesa, medaglia d’argento alla maratona di Rio 2016, ha tagliato il traguardo e ha incrociato i polsi sopra la testa come se fossero imprigionati da manette. «La mia famiglia è in prigione e si parla di diritti si viene uccisi» ha detto ai giornalisti dopo la finale.
Il governo di Addis Abeba lo scorso 9 ottobre ha dichiarato lo stato di emergenza dopo il dilagare delle proteste anti-governative, soprattutto nelle regioni dell’Oromia e dell’Amara. Secondo Human Rights Watch, sono almeno 500 le vittime della repressione messa in atto dalla polizia. Il governo ha sempre smentito, affermando che si tratta di una cifra esagerata, senza però fornire l’esatto numero delle vittime.
In un’intervista a EuroActiv, Feyisa Lilesa, che nel frattempo ha ottenuto il permesso di risiedere negli Stati Uniti, dice che le vittime sono molte di più, «almeno mille» e che la situazione nel Paese è sempre più tesa. «L’Etiopia rischia di diventare una nuova Libia» afferma: «il governo cerca di mettere i tigrini contro gli amara e contro altri, per questo le cose potrebbero peggiorare in tutto il Paese».
L’atleta dice che il governo ha sempre avuto un atteggiamento repressivo, anche in passato: «Se penso al periodo in cui andavo a scuola, non posso che dire così» afferma: «Quando facevo la nona classe, tre dei miei amici furono uccisi dal regime. La repressione è continuata nel 2014. L’epicentro era la parte occidentale di Addis Abeba. Ciò significò “incidenti”, uccisioni, repressioni, ed esilio. La repressione negli anni è stata molto intensa, persino quando io mi stavo allenando per le Olimpiadi. Tre mesi prima di Rio, mi chiesero di partecipare ai giochi, e fu allora che decisi di fare un gesto simbolico».
Feyisa Lilesa ora vive negli Usa, ma teme per la sua famiglia che è in Etiopia: «Sono molto, molto preoccupato per la mia famiglia. Abitiamo a circa 60 miglia da Addis Abeba, ad ovest della capitale, nella regione dell’Oromia. Potrebbero attaccarci in modi diversi, anche indirettamente. Solo l’1% della mia famiglia al momento ha un lavoro. La moglie di mio fratello, che è giornalista, è stata licenziata dal suo posto di lavoro una settimana fa, senza alcuna spiegazione».
Sulle motivazioni delle proteste degli Oromo, popolo al quale Feysa appartiene, l’atleta spiega: «Le richieste della popolazione sono molto semplici: uguaglianza, diritti umani fondamentali, ed equa ripartizione delle risorse». Il problema è che non c’è affatto democrazia e che tutte le altre comunità dell’Etiopia, soprattutto gli oromo, sono discriminate dalla minoranza tigrina che «controlla le posizioni chiave nel governo, l’esercito, la polizia e la difesa».