Si snoda lungo il confine tra Brasile, Suriname e le due Guiane. Ma la missione di padre Nello Ruffaldi riguarda innanzitutto le sfide legate alla droga, allo sfruttamento e alla tratta di persone
La frontiera come luogo fisico, ma anche come esperienza sociale, culturale, identitaria e certamente come sfida. Padre Nello Ruffaldi, missionario del Pime da 45 anni in Brasile, è sempre vissuto in situazioni di frontiera, dedicando la sua vita e il suo impegno missionario soprattutto agli indios dell’Amazzonia. Un pioniere allora come adesso. Da tre anni, infatti, questo impegno si è spostato anche su una frontiera geografica, quella tra Brasile, Guiane e Suriname. Dove continua a condividere con gli indios le sfide di un mondo in bilico tra tradizione e globalizzazione, ma dove affronta anche piaghe vecchie rivisitate dal mondo che cambia, ma non per questo meno drammatiche. Come quelle dei traffici di droga e del traffico degli esseri umani, dello sfruttamento della prostituzione e del lavoro forzato, dei profughi e dei tanti, troppi “senza”: senza tetto, senza lavoro, senza diritti, senza dignità. Con un punto fermo e in un certo senso “sovversivo”: cercare nuovi cammini e nuove espressioni della missione per una terra “senza mali”.
«Siamo un piccolo gruppo di persone – racconta padre Nello che, nonostante l’età e soprattutto una grave malattia, continua a guardare a nuovi orizzonti -, ci sentiamo chiamati da Gesù a essere suoi discepoli e a portare la Buona Novella per costruire un mondo più giusto, umano e fraterno a partire dal cuore delle Guiane. Il nostro vuole essere un “uscire” per andare incontro a chi è fuori: lasciare un poco la cura di chi è dentro la Chiesa per occuparsi di chi vive ai margini«. Il progetto è nato nel 2013, ma di fatto è diventato operativo solo nel maggio del 2015, dopo essere stato approvato dalla Conferenza dei vescovi del Brasile e da quella dei religiosi. È stato, inoltre, proposto ai vescovi dello Stato di Macapá, della Guiana Francese e del Suriname e divulgato presso Congregazioni, Istituti religiosi e parrocchie, perché potesse avere una dimensione inter-ecclesiale e inter-congregazionale, oltre che internazionale e itinerante. Attualmente l’iniziativa è coordinata, a partire da Belém, da padre Nello insieme a suor Rebeca della congregazione di Notre Dame di Namur, da molti anni fedele compagna di tante battaglie; insieme realizzano visite periodiche a Oiapoque, che è stata la “prima missione” di padre Ruffaldi – proprio al confine con la Guiana Francese – e che è il fulcro di questa “nuova missione” alle frontiere: qui è presente una comunità composta da due religiose e una laica, che lavorano tra la gente e gestiscono una struttura d’appoggio per migranti, chiamata “Buon Samaritano”. Le religiose sono supportate da padre Agustinho (indonesiano) e padre Gregorio (indiano), entrambi del Verbo Divino, e da padre Paolo, slovacco, che è il parroco.
Sin dall’inizio – spiega padre Nello – il progetto aveva l’obiettivo di farsi carico dei problemi legati alla tratta di persone, alla prostituzione, al traffico di droga e all’immigrazione illegale, avvicinando le vittime per offrire loro ascolto, formazione, orientamento e, in caso di necessità, un aiuto concreto».
Oiapoque è una cittadina di 23 mila abitanti, che vive una situazione complessa. Proprio per il fatto di essere alla frontiera, è zona di passaggio legale e illegale. Vi transitano i migranti in cerca di lavoro nei Paesi vicini e i garimpeiro, cercatori d’oro, che si ritrovano poi nel fondo della foresta in condizioni disumane; giovani uomini e donne spinti dal miraggio dell’Europa e indios attratti da quello dei soldi, gli uni e gli altri a rischio di finire nelle mani di trafficanti e sfruttatori. Attraverso le visite alle famiglie, soprattutto nei quartieri più periferici e poveri, si è scoperta anche una situazione drammatica di violenze e abusi, spesso all’interno degli ambienti domestici o nei confronti dei minori.
«Un impegno importante – spiega padre Nello – è quello nel campo della prevenzione: per questo a Oiapoque si cerca soprattutto di andare nelle scuole e di informare e formare le persone più vulnerabili e i migranti, di aiutarli a difendersi contro il traffico di esseri umani e la riduzione in schiavitù per la prostituzione e il lavoro forzato ed eventualmente di assisterli nel caso decidano di denunciare. È un lavoro difficile e delicato, in cui cerchiamo di coinvolgere, oltre alle Chiese locali, anche le istituzioni pubbliche, perché da soli la nostra azione sarebbe molto limitata e giustificherebbe l’inerzia degli organi responsabili, sollevandoli dalle loro responsabilità».
In prospettiva, padre Nello e il suo gruppo vorrebbero realizzare anche una casa protetta per le donne stuprate, vittime di violenze domestiche o di tratta, che non sanno dove andare, e per i minori abusati che non hanno alcun sostegno psicologico. Altra “frontiera” quella dei tossicodipendenti, che, pure loro, sono molto numerosi e totalmente allo sbando, vittime e al tempo stesso spacciatori, in una regione dove il traffico di droga interno ed esterno rappresenta uno dei business illegali più lucrosi e più pericolosi, in mano a gruppi criminali che speculano sulla vita di tante persone.
«Anche gli indios sono grandemente minacciati lungo questa frontiera», tiene a precisare padre Nello che alle popolazioni indigene, alle loro battaglie e alla difesa della loro cultura e dignità ha dedicato gran parte della sua esistenza. «Nel loro caso, però – continua il missionario – il problema non è tanto – o non più – il fatto che vengano minacciati di violenze, espropri o altro, quanto la difficoltà a confrontarsi con le dinamiche e i riferimenti culturali di un mondo globalizzato e di una società dei consumi, che spesso confliggono con la loro cultura e i loro valori. Il denaro, per esempio, ha portato certamente vantaggi e migliorato le condizioni di vita delle famiglie, ma ha pure contribuito a cambiare la mentalità. C’è meno condivisione e c’è meno lavoro in comune. Mentre c’è più disponibilità, ad esempio, di alcolici, che sono una vera sciagura. I giovani, poi, tendono a emigrare nelle cittadine come Oiapoque, ma anche nei Paesi limitrofi, attratti dalla possibilità di fare soldi, che poi non usano necessariamente bene. Per questo con loro si cerca di riflettere: perché vuoi i soldi? Per quale scopo? Qual è la tua scelta di vita? Cosa direbbe la tua cultura? E cosa direbbe il Vangelo?».
Padre Nello sottolinea la difficoltà di creare un’armonia fra tradizione e globalizzazione; senso di appartenenza ancestrale e individualismo imperante; orgoglio di essere indio e influenza di modelli e stili di vita consumistici. «È importante che restino legati o ritrovino i valori della loro tradizione e cultura – dice – perché sono valori belli e positivi, che dovrebbero essere trasmessi e condivisi con l’umanità. La cultura india può dare un contributo molto importante sia alla Chiesa che alla società».
Padre Nello rievoca, ad esempio, il concetto di “sumak kawsay” – letteralmente “ben vivere”, che potrebbe essere tradotto anche “vita piena” o “vita buona”: «Di fronte alle proposte di una società neoliberista, la spiritualità indigena mostra il cammino per una vita di qualità, fondata sulla condivisione, la semplicità e la sobrietà. Gli indios si sentono parte di un tutto e per questo vengono educati al rispetto dell’altro e dell’ambiente, in uno spirito di umiltà. Partendo dal loro esempio, tutti quanti dovremmo sviluppare una relazione più intensa e rispettosa con la Madre Terra e coltivare un grado positivo di semplicità ed essenzialità nella nostra vita».
Non molto diversamente, si esprime Papa Francesco, nella sua Enciclica Laudato Si’: «È indispensabile – sostiene il Pontefice – prestare speciale attenzione alle comunità aborigene con le loro tradizioni culturali. […] Quando rimangono nei loro territori, sono quelli che meglio se ne prendono cura. Tuttavia, in diverse parti del mondo, sono oggetto di pressioni affinché abbandonino le loro terre e le lascino libere per progetti estrattivi, agricoli o di allevamento che non prestano attenzione al degrado della natura e della cultura». (LS 146
«Facendo nostre le preoccupazioni e gli stimoli del Pontefice – conclude padre Ruffaldi – e attingendo anche all’esperienza maturata in America Latina, specialmente dalla Rete ecclesiale panamazzonica (Repam) che si articola in nove Paesi, cerchiamo di dare risposte alle problematiche che l’Amazzonia e i popoli che vi abitano devono affrontare, provando a raggiungere, come ci suggerisce sempre Papa Francesco, i posti più carenti, le periferie e, appunto, le frontiere per realizzare il sogno missionario di arrivare a tutti».