Padre Zerai, àncora di salvezza

Padre Zerai, àncora di salvezza

Ha salvato la vita di migliaia di migranti soprattutto eritrei. E si batte per una migliore accoglienza in Europa. Padre Mussie Zerai sarà ospite al Pime di Milano per la Giornata della Memoria 2017

E’ noto come l’“angelo dei profughi”. Il suo numero di cellulare è scritto sui muri delle prigioni libiche ed è diventato patrimonio comune grazie al passaparola. Un numero “salva-vita” per migliaia di migranti, eritrei, ma non solo. Dal 2003, padre Mussie Zerai risponde all’altro capo di un filo sottilissimo: quello della speranza o della disperazione. A lui fanno appello i naufraghi del mare e quelli sequestrati dai predoni, i malcapitati finiti nelle prigioni di Egitto, Sudan e Libia o quelli che subiscono violenze e abusi. Persone che, spesso, non sanno chi altri chiamare. E così, don Zerai – prete eritreo che ha vissuto sulla sua pelle l’esperienza di profugo e richiedente asilo – è diventato un punto di riferimento per moltissimi connazionali che continuano incessantemente a fuggire da un regime che toglie libertà e prospettive di futuro. Rischiando la vita.

Grazie al suo telefono satellitare e al suo pronto intervento presso la Guardia costiera italiana e maltese ne ha salvati migliaia. E per questo è stato candidato al Nobel per la Pace nel 2015. Qui ci racconta la sua storia e il suo impegno.

Padre Zerai, perché ha lasciato l’Eritrea a 16 anni?

«Il mio Paese stava uscendo da una dittatura soffocante, in cui tutti i diritti fondamentali venivano negati. Volevo sperimentare cosa vuol dire vivere in libertà, senza paura e senza il rumore della guerra in sottofondo. Volevo vivere da uomo libero».

Perché l’Italia?

«Mi sembrava il posto più familiare per i legami storici con il mio Paese. Ma quando sono partito, non conoscevo nessuno. In aereo ho incontrato l’abate dei cistercensi che poi mi ha ospitato per le prime settimane, prima di indirizzarmi alle strutture di accoglienza del Centro Astalli. In quanto minorenne, sono stato affidato ai servizi sociali. Successivamente ho fatto tutta la trafila per i richiedenti asilo e ho ottenuto lo status di rifugiato. Cercavo di lavorare per mantenermi, ma dentro di me sentivo anche il desiderio di aiutare gli altri».

È iniziato così il suo impegno per rifugiati e richiedenti asilo?

«Avevo conosciuto un religioso dei sacramentini che andava spesso alla Stazione Termini e aiutava i minori non accompagnati. Davo una mano per tradurre. Nel 1995, ho iniziato a lavorare part time in un centro di ascolto per migranti. Intanto, continuavo a chiedermi dentro di me cosa significava tutto questo per la mia vita».

È nata così la sua vocazione sacerdotale?

«A dire il vero, già a 14 anni avrei voluto entrare in seminario. Ma mio padre non era d’accordo. Un giorno, nel 1997, ho visto in tivù la cerimonia di beatificazione di Giovanni Battista Scalabrini. Mi ha colpito molto il fatto che si fosse occupato dei migranti. Ho pensato che ci voleva una persona così anche per i nostri tempi. Poi, nel Duemila, in occasione del Giubileo mi sono detto che era tempo di decidere. Volevo essere anch’io sacerdote per i migranti. Non sapevo dell’esistenza dei missionari scalabriniani – e del loro specifico carisma – ma mi hanno indirizzato proprio a loro. Era un segno. Da lì ho iniziato il mio cammino di formazione. Poi sono passato alla mia diocesi di origine, quella di Asmara».

Quando ha cominciato a ricevere le chiamate dei migranti in pericolo di vita?

«Le prime risalgono al 2003 e venivano dai barconi. Poi, un giornalista italiano, Gabriele del Grande, mi ha messo in contatto con alcuni eritrei nelle carceri libiche. Ascoltavo le loro storie e mi dicevo che non potevo limitarmi a tradurre. Dovevo denunciare. E fare qualcosa in prima persona. Non erano solo storie drammatiche di migrazione, ma di violenze, torture e tratta di esseri umani».

La penisola del Sinai è stata per anni il crocevia di traffici e violenze efferate…

«Oggi quella rotta non è più aperta, perché Israele ha costruito un muro e le autorità egiziane hanno bombardato e militarizzato quella zona. Ora sono rarissimi i casi di migranti che si avventurano in quella direzione. Ma il traffico di persone si è semplicemente spostato altrove. Ora avviene in Sud Sudan, Egitto e Libia e a volte si sposta verso Niger e Ciad. Non è così efferato come nel Sinai, ma ci sono ancora rapimenti di giovani eritrei e richieste di riscatto esorbitanti. La frontiera dei sequestri si è spostata più a Sud».

Cosa succede invece in Libia?

«Ai tempi di Gheddafi, si stimava che ci fossero 22 centri di detenzione, dove i migranti subivano trattamenti disumani e abusi, soprattutto le donne che venivano sistematicamente violentate dai militari. Oggi le cose non sono cambiate, anzi. Continuo a ricevere telefonate di gente terrorizzata. Quel Paese è una polveriera. Non sai mai in che mani finisci. I vari gruppi si passano i migranti come se fossero merce. Ognuno mette la sua tassa e il suo prezzo. Se non puoi pagare vieni schiavizzato».

Sia uomini che donne?

«Gli uomini vengono usati per i lavori forzati in edilizia e in agricoltura o come facchini, spesso per il trasporto di armi. Le donne subiscono continuamente abusi sessuali. E questo avviene in molti casi anche sugli uomini».

Perché ancora oggi così tanti eritrei continuano a fuggire dal loro Paese? Non sanno quello che potrebbe succedergli durante il viaggio?

«Lo sanno, ma forse non danno il giusto peso alle informazioni che ricevono. Sono quasi tutti giovani e pensano che avranno più fortuna. E poi sono convinti che altrove sarà certamente meglio. In Eritrea vivono una situazione di schiavitù legalizzata. Non hanno diritti e non hanno prospettive. Il loro futuro è rubato dal servizio militare a tempo indeterminato, senza uno stipendio decente per sé e la propria famiglia. Per questo, pensano che sia preferibile morire tentando la fortuna piuttosto che morire lentamente e inesorabilmente nel proprio Paese. E così scappano… Si dice che siano quasi duemila ogni mese. Circa il dieci per cento della popolazione eritrea è fuggita all’estero negli ultimi anni».

Quanti ne ha “salvati”?

«Difficile dirlo. Cinquemila solo nel 2011. Ma negli ultimi cinque anni, in base a chiamate e sbarchi, saranno almeno 150 mila».

E quanti sono morti?

«Ancora più difficile fare delle stime. Muoiono nel deserto e muoiono nel Mediterraneo. Si ritiene verosimile che almeno 25 mila migranti di varie nazionalità siano deceduti in mare. In Eritrea, oggi, non c’è nessuna famiglia che non sia stata toccata da un lutto».

Che cosa succede quando qualcuno la chiama, chiedendo aiuto?

«In genere chiamano in caso di naufragio o di gravi situazioni di pericolo. E allora allerto immediatamente la guardia costiera italiana o quella maltese. Ma oggi, con la fine dell’operazione Mare Nostrum, la situazione si è ulteriormente complicata. Con Mare Nostrum c’era un progetto ben preciso di ricerca e soccorso. Ora è più accentuato l’aspetto della difesa. E così le navi ci mettono più tempo. Se qualcuno si trova in difficoltà in alto mare o vicino alla Libia prima di arrivare possono impiegare delle ore. Quanto ai trafficanti, usano gommoni in cattive condizioni o vere e proprie carrette del mare. Del resto, una volta che i migranti hanno pagato per imbarcarsi a loro non interessa se arrivano vivi o morti. A loro interessano solo i soldi».

È aumentato sensibilmente il numero di donne…

«In passato dall’Eritrea partivano prima i mariti, poi facevano i ricongiungimenti. A volte le donne si fermavano in Sudan o in Etiopia. Ora che i Paesi europei bloccano anche i ricongiungimenti, le donne partono tentando anche loro la fortuna. A volte sono giovanissime o incinte o con bambini piccoli. Spesso il loro viaggio è ancora più drammatico. Ma sono sempre di più quelle che arrivano con i barconi».

Sta seguendo qualche caso in particolare?

«In questo momento (inizio dicembre, ndr) c’è un gruppo di eritrei bloccato in Sud Sudan. Ma altri sono diretti in Tanzania e addirittura in Botswana. Ce ne sono anche in Asia. Sperano di poter raggiungere l’Australia, ma spesso restano bloccati e completamente abbandonati a loro stessi».

Come giudica le politiche migratorie dell’Europa?

«L’Europa avrebbe potuto fare bene, certamente meglio di come sta facendo, dotandosi di strumenti più adeguati ed efficaci. Nel mondo ci sono 65 milioni di profughi. L’Europa ne ha accolto poco più di un milione. Ci sono Paesi e continenti come l’Africa che si fanno carico di 9 rifugiati su 10 presenti nel mondo. E allora di cosa ci lamentiamo?».

Lei cosa suggerisce?

«L’Europa potrebbe accogliere meglio, creando ad esempio programmi di reinsediamento, nella legalità e in sicurezza. Sia per i profughi che per l’Europa stessa. Inoltre, la cosa più legale, sicura e meno costosa sono i corridoi umanitari. Frontex spende circa 3.000 euro a persona per espellere i profughi, mentre farli venire legalmente costerebbe attorno ai 450 euro. Per non parlare di quanto si sta spendendo in muri, filo spinato e misure restrittive. E così chi ci guadagna sono i trafficanti di esseri umani, magari legati a gruppi terroristici, che hanno alzato i prezzi per aggirare le barriere che l’Europa costruisce».

E l’Italia, a suo avviso, come si sta comportando?

«Adesso che tutti i Paesi del Nord Europa hanno chiuso le porte, l’Italia è costretta a trasformarsi da Paese di transito a Paese di accoglienza. Ma tutto questo processo avviene nella confusione. E così anche in questo caso, c’è chi ci guadagna illecitamente. Gli eritrei non vogliono rimanere in Italia. Chi è rimasto spesso finisce su un marciapiede o vive in palazzi fatiscenti in condizioni di precarietà. Sono scappati facendo grandi sacrifici e rischiando di morire per avere futuro e una vita dignitosi e si ritrovano a vivere in condizioni disumane».

Eppure dopo tutti questi anni e migliaia di migranti arrivati in Europa, si continua a parlare di emergenza…

«La comunità internazionale, l’Europa, l’Italia… tutti sanno bene quali sono le vere cause, ma per affrontarle devono pagare un prezzo. L’ultimo accordo commerciale con l’Africa, solo per fare un esempio, è tutto a svantaggio di quel continente. Questo poi si ripercuote sulla gente, in termini di mancanza di infrastrutture, istruzione, cure… Per non parlare del fenomeno del land grabbing che toglie terra e risorse vitali a intere popolazioni. Poi ci stupiamo di tutti questi migranti che cercano una vita migliore altrove».

Ci sono però anche responsabilità locali…

«Certo. Gli interlocutori sono governi a volte corrotti, a volte dittatoriali. L’Eritrea, ad esempio, ha dato in affitto il porto di Assab al Qatar, senza chiedere niente a nessuno. Ma i soldi a chi vanno? Le miniere d’oro del Paese da anni riempiono carichi diretti in Cina e altrove. Canadesi, cinesi, italiani… sono in molti a trarne beneficio, ma se quei soldi non arrivano ai cittadini, i giovani continueranno ad andarsene».

Per queste sue denunce, lei riceve minacce?

«Ogni giorno. Ma se, per paura di pagare qualche prezzo, non parliamo, allora non parla più nessuno. È vero anche che molti non vogliono sentire. Ma bisogna fare come nel Vangelo, quando si parla del giudice disonesto. Una donna continua ad assillarlo finché non fa giustizia Così bisogna fare con i sordi e con chi ha il potere decisionale. Continueremo ad assillarli, finché non si prenderanno le loro responsabilità. Ma dobbiamo muoverci. Se il greto del fiume non viene curato in tempo, quando poi si gonfia spazzerà via tutto».

CHI È

Eritreo, classe 1975, Mussie Zerai è arrivato nel 1992 in Italia, dove ha ottenuto l’asilo politico. Ha studiato Filosofia a Piacenza, quindi Teologia e Morale sociale presso l’Urbaniana. È stato ordinato sacerdote nel 2010. Attivista per i diritti umani, si occupa in particolare di salvare la vita e dare assistenza ai profughi più bisognosi. Per questo, nel 2006 ha fondato l’associazione “Habeshia”. Pur continuando a fare la spola con l’Italia, attualmente vive in Svizzera, dove si occupa di una quindicina di comunità eritree, prestando in particolare servizio pastorale per i cattolici del Corno d’Africa.

GIORNATA DELLA MEMORIA 2017

In occasione della Giornata della Memoria delle vittime della Shoah, il Centro Pime di Milano, in collaborazione con “Gariwo, la foresta dei Giusti”, organizza una serata di approfondimento e riflessione, martedì 24 gennaio, alle ore 21. Quest’anno lo sguardo si allarga al dramma di migliaia di eritrei e di moltissimi profughi, che hanno perso la vita o che subiscono terribili violenze e torture, fuggendo dal loro Paese, soffocato da un regime liberticida. In mezzo all’abisso del Male, tuttavia, è sempre possibile rintracciare figure di Giusti e gesti di Bene, capaci di generare percorsi di perdono e riconciliazione, in bilico tra passato e futuro. Interverranno padre Mussie Zerai, presidente dell’associazione “Habeshia”, e Gabriele Nissim, presidente di “Gariwo, la foresta dei Giusti”.