Estrema povertà e mancanza di libertà. Ecco perché migliaia di giovani eritrei continuano a fuggire dal loro Paese
E’ uno dei Paesi più poveri al mondo. E anche uno dei più chiusi e repressivi. L’Eritrea del presidente Isaias Afewerki è da oltre vent’anni una dittatura guidata con il pugno di ferro e una rete capillare di spionaggio. Che soffoca la vita, le aspirazioni, il futuro soprattutto dei giovani. L’Eritrea oggi vive sotto un regime di terrore, in cui tutto è controllato dal partito unico – il Fronte popolare per la democrazia e la giustizia (Fpdg) – di Afewerki, primo e unico presidente del Paese dal 1993. Afewerki aveva guidato il Fronte di liberazione del popolo eritreo (Flpe) nella trentennale guerra di indipendenza dall’Etiopia di Menghistu, ottenuta nel 1991.
Dopo le promesse iniziali di ristrutturazione delle istituzioni e di rilancio dell’economia, il regime si è via via chiuso su se stesso, isolandosi a livello internazionale e limitando pesantemente tutte le libertà e i diritti più basilari al suo interno. Ma anche imbarcandosi in una nuova, pretestuosa e devastante guerra contro l’Etiopia (1998 – 2000) per il controllo di alcuni territori di confine e centralizzando tutte le attività economiche, nella prospettiva di una auto-sostenibilità di fatto impossibile da raggiungere, anche per l’alto tasso di corruzione e inefficienza.
Il risultato è che il Paese è ridotto in ginocchio ed è spesso segnato da gravi carestie che il governo nega sistematicamente. Inoltre non esistono partiti politici di opposizione e nessuna informazione indipendente. Tutti i media privati sono stati banditi così come ogni forma di stampa libera. Direttori, giornalisti, attivisti politici e per i diritti umani sono finiti in prigione o spariti. Secondo Reporters sans Frontières l’Eritrea sarebbe all’ultimo posto al mondo per libertà di stampa.
Ma è tutto il Paese a essere una vera e propria prigione a cielo aperto. Mancanza di diritti, ma anche di opportunità; mancanza di libertà – di espressione, associazione, movimento… – ma anche di interazione di qualsiasi tipo con altri Paesi. Eccetto, ovviamente, contratti e investimenti gestiti direttamente dal governo. Nel Paese, inoltre, non esistono più università, se non quella di Stato, che è per pochi eletti e assomiglia molto a un campus dell’esercito, dove accanto allo studio i giovani sono costretti a sottoporsi a un training militare.
Anche dal punto di vista della religione le cose non vanno meglio. Il governo riconosce ufficialmente solo la Chiesa copta-ortodossa – a cui dichiara di appartenere lo stesso presidente -, quella cattolica e quella evangelica luterana. Ma, con l’eccezione della Chiesa ortodossa – che vanta una lunga e riconosciuta storia ma anche una forte vicinanza al regime – tutte le altre Chiese e gruppi religiosi sono tenuti sotto strettissimo controllo se non apertamente ostacolati. Secondo la World Watch List, dell’organizzazione Open Doors, che monitora le persecuzioni dei cristiani nel mondo, l’Eritrea si classifica ai primissimi posti. Negli ultimi anni, anzi, la situazione sarebbe ulteriormente peggiorata, passando dal dodicesimo al nono posto. «L’Eritrea – si legge nel Rapporto 2015 – è sottoposta ormai da anni a un regime autoritario, che cerca di avere il controllo totale e un’influenza sempre più forte sulla vita dei cittadini. Attualmente, il regime sta facendo il possibile per mantenere il proprio potere e, nel tentativo di rafforzarlo, i cristiani sono arrestati, oppressi e uccisi perché considerati una minaccia per la sicurezza dello Stato e del governo».
Su tutti, invece – senza distinzione di credo o appartenenza politica – si abbatte una povertà dilagante che attanaglia gran parte della popolazione, con situazioni gravissime di persone che rischiano letteralmente di morire di fame. Il Paese è agli ultimi posti nell’indice dello sviluppo umano. L’80 per cento della popolazione vive di un’agricoltura di sussistenza che spesso, a causa delle frequenti siccità, non arriva a sfamare la gente. Per il resto, tutti i settori più produttivi e redditizi, nonché tutto l’import-export, sono controllati dai dignitari del Partito unico, una piccola élite di potenti vicini al presidente.
Il regime, infine, impedisce qualsiasi forma di opera sociale e di impegno solidaristico. Nel 2006, ha cacciato tutte le ong straniere. Sono rimaste solo alcune grandi agenzie delle Nazioni Unite, la cui azione, tuttavia, è fortemente controllata a limitata, compresa la distribuzione di aiuti alimentari. Nessuno, però, può legalmente migrare in cerca di una vita migliore. Almeno non prima di aver compiuto cinquant’anni. Ecco perché i giovani fuggono. Scappano innanzitutto dalla prospettiva di un servizio militare obbligatorio a tempo indeterminato. Che, una volta cominciato, non si sa quando finirà. Potrebbe essere anche a vita. Con stipendi – quando vengono pagati – che non permettono ai singoli e tanto meno alle famiglie di vivere con dignità.
I viaggi della speranza, tuttavia, si trasformano spesso in incubi. Prima ancora di arrivare al Mediterraneo, infatti, gli eritrei sono spesso vittime di predoni o di bande armate e gruppi criminali che li sequestrano e chiedono riscatti enormi, anche di 30-40 mila dollari. Una cifra inimmaginabile per le famiglie, che spesso ricevono telefonate disperate dai loro figli, mentre vengono torturati. E allora vendono il poco che hanno e si indebitano pesantemente per inviare i soldi del riscatto. Chi non paga viene ucciso o “usato” per il traffico illegale di organi per trapianti. Negli ultimi anni non si è mai arrestato il flusso degli eritrei verso l’Italia, che viene considerata tendenzialmente un Paese di transito in direzione del Nord Europa, dove molti cercano di raggiungere qualche membro della famiglia. Più di 20 mila eritrei sono arrivati in Italia per mare nel 2016 e 38 mila l’anno precedente. Sono i “fortunati” che non hanno perso la vita nel deserto o in mare. Ma che spesso continuiamo ad accogliere come “invasori”.