Il neo cardinale Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, è in prima linea per riportare la pace nel suo Paese, la Repubblica Centrafricana, ben lontana dall’aver superato una dolorosa crisi
Con i suoi 49 anni, è il più giovane tra i cardinali creati recentemente da Papa Francesco. È l’unico africano. Ed è il primo del suo Paese, la Repubblica Centrafricana. Mons. Dieudonné Nzapalainga – membro dell’Istituto dei missionari del Santo Spirito – si è ritrovato nel giro di pochi anni a vivere un’esperienza straordinaria. Nel bene e nel male.
Amministratore apostolico della capitale Bangui dal 2009 – in un periodo particolarmente difficile per la Chiesa centrafricana attraversata da scandali e polemiche – ne è diventato arcivescovo nel 2012. «Il domani della nostra comunità cristiana – diceva allora – si scrive con una grande “S”, quella della parola “Speranza”. Chi spera non teme nulla. Sono fiducioso che il Signore sa come condurre la sua Chiesa. E chissà che non tocchi proprio a noi la sorpresa di costatare che il cambiamento è in atto».
Certamente non poteva immaginare che quel cambiamento sarebbe stato segnato addirittura dalla visita di Papa Francesco che, nel novembre 2015, ha aperto la Porta Santa dell’Anno della Misericordia proprio a Bangui. Ma forse non poteva neppure immaginare che in questi stessi anni il suo Paese sarebbe precipitato in una guerra fratricida che ha provocato migliaia di morti e milioni di sfollati e profughi, mettendo ancor più in ginocchio una delle nazioni più povere al mondo.
Ancora oggi la crisi è tutt’altro che risolta. Il nuovo governo controlla a malapena la capitale Bangui, mentre il resto del Paese è in preda al caos e a gruppi di miliziani, ribelli o semplicemente banditi. Che dettano la loro legge di morte e prevaricazione.
Eminenza, in questo contesto di grave crisi, che significato ha la sua creazione a cardinale per lei e per il suo Paese?
«È una chiamata, un dono che il Signore, attraverso il Santo Padre, fa alla Chiesa del Centrafrica. Una Chiesa povera, abbandonata, che soffre per la guerra fratricida. Papa Francesco è venuto da noi per toccare con mano questa povertà. Quindi ha preso me, uno dei suoi figli poveri, per far parte del suo Collegio. Dobbiamo rendere grazie a Dio per la sua benevolenza e prendere la misura di questa grande responsabilità, che accolgo con molta semplicità e umiltà, in quanto è Dio che ci dà la Grazia necessaria per farci carico di questa missione. Non è una questione di meriti – certamente ci sono altri che lo meritano più di me – ma è una questione di Grazia: per il mio Paese, per il continente, e anche per la Chiesa universale. Di questo devo farmi carico, perché il mio popolo, segnato dalla guerra e dalle divisioni, possa finalmente ascoltare un messaggio di pace. Che io possa servire come cerniera e come pilastro – secondo il significato vero della parola “cardinale” – sul quale la gente possa appoggiarsi per rimettersi in piedi».
In Repubblica Centrafricana, i leader cattolici, protestanti e musulmani lavorano insieme per la pace. Dunque un dialogo e una collaborazione sono possibili?
«È quello che facciamo da molto tempo attraverso la Piattaforma interreligiosa. Ed è quello che abbiamo voluto testimoniare anche a Roma in occasione della cerimonia di apertura del Concistoro. L’imam e il pastore erano con me, per dire che noi, leader religiosi, siamo uniti e vogliamo che i nostri fratelli, i nostri fedeli facciano propria questa fraternità al fine di poter sviluppare la Repubblica Centrafricana. La religione non è il problema, ma parte della soluzione. Siamo tutti figli di Abramo».
Se non fosse per il Papa, si ha l’impressione che la Repubblica Centrafricana sia un Paese dimenticato e abbandonato da tutti. Non le sembra?
«Tutti ci hanno dimenticati. Ma Dio non ci ha dimenticati. La prova è l’iniziativa del Papa, che non si è limitato a parlare del nostro Paese e a invitare i grandi del mondo a occuparsene, ma è venuto di persona. E facendolo, ha mostrato la tenerezza di Dio nei confronti dell’umanità ferita, dei più poveri e abbandonati, di quelli che piangono e soffrono e hanno bisogno di gesti di misericordia. Papa Francesco, personalmente, ha fatto questi gesti. E ha ricollocato la Repubblica Centrafricana sulla scena mondiale».
Qual è la situazione oggi del Centrafrica?
«Il Paese è in una situazione davvero precaria. È normale, poiché veniamo da un periodo difficile. Ma sono stati fatti anche passi avanti. Abbiamo avuto elezioni pacifiche e trasparenti, e anche questo è frutto della visita del Papa. Era una cosa assolutamente impensabile sino a qualche settimana prima. È il primo miracolo. Poi ci sono i miracoli del quotidiano. Ad esempio, sono tornato più volte nel quartiere musulmano chiamato Km5, dove la maggior parte della gente non vuole neppure andare per questioni di sicurezza. Abbiamo camminato e abbiamo abbracciato i nostri fratelli musulmani. La paura, i pregiudizi, le barriere sono caduti. Anche quando sono diventato cardinale sono tornato là, a piedi. Molti fratelli musulmani erano lì ad accoglierci per dire che era molto importante ritrovarsi insieme per ricostruire il Paese».
Molti però parlano del rischio di una deriva jihadista in alcune regioni del Centrafrica…
«Questo rischio esiste ovunque. Per questo noi centrafricani dobbiamo essere molto vigilanti. C’è gente che viene da fuori. Non sappiamo chi arriva, da dove e perché. Sono stato nel centro del Paese, nella città di Kaga-Bandoro, dove a metà ottobre una trentina di persone sono state uccise e circa sessanta ferite, vicino alla curia. Ho parlato alla comunità musulmana. Loro stessi mi hanno detto che ci sono persone che non conoscono. Vengono da Ciad, Sudan, Nigeria, Niger…. Gente con progetti di morte. E, ancora una volta, saranno gli innocenti a pagare. Per questo noi centrafricani dobbiamo essere molto cauti e amare il nostro Paese».
Non esiste, però, un vero e proprio Stato. Vaste aree del Paese sono allo sbando…
«Il governo è a Bangui. Il resto del Paese è ancora fuori controllo. Ci sono alcuni prefetti o sottoprefetti che non hanno neppure forze dell’ordine a loro disposizione. Cosa mai possono fare? Bisogna essere più seri, garantire la sicurezza. Il progetto di riforma dell’esercito va avanti molto lentamente. Ma nessuno può difendere il Paese se non i centrafricani stessi. Parlo di un esercito repubblicano, non regionale o, peggio, tribale o etnico, né politicizzato al soldo di qualcuno. Ma di un esercito al servizio del popolo e della nazione».
Intanto, però, la missione “Sangari” della Francia si è conclusa e quella dell’Onu è fortemente contestata…
«È stato detto alla popolazione che queste forze sarebbero venute per proteggerla. Ma quando i ribelli vengono ad assalire, uccidere, saccheggiare, ci si aspetta che queste forze sbarrino loro la strada. Ma non succede. Dunque la popolazione si chiede che cosa sono venuti a fare, per vederci morire o per intervenire come i pompieri che spengono il fuoco una volta appiccato o come il medico che accerta la morte? Questa passività e questa indifferenza fanno sì che la gente dica che non sono venuti per noi, sono venuti per arricchirsi o per altro. È tempo di cambiare, di intervenire per proteggere la gente, in modo che si senta sicura. Non ci sono più polizia, gendarmeria, militari. E se la comunità internazionale è lì, è per supplire a questa situazione».
Che cosa pensa delle recenti manifestazioni della società civile?
«Sono l’espressione di una grande esasperazione. La gente non ne può più. La collera covava nell’animo della gente che si sente impotente e non protetta. Per questo è scesa in strada. Ma è stata anche l’occasione per la comunità internazionale di rendersi conto che, se non prende in mano in modo serio la questione della sicurezza, il problema può ulteriormente complicarsi. Durante le manifestazioni ho trasportato diversi feriti nella mia auto e li ho portati all’ospedale. Ho parlato ai giovani, dicendo che la loro collera era comprensibile, ma non per questo bisognava uccidere degli innocenti o provocare distruzioni. C’era bisogno di qualcuno che si mettesse in mezzo, che attenuasse la loro ira, che prendesse su di sé questa aggressività… Il giorno dopo la situazione era già migliorata».
Lei e la Chiesa del Centrafrica continuate a giocare un ruolo di primo piano…
«È quello che cerchiamo di fare. Solo per fare un esempio, ancora oggi tre quarti dei luoghi occupati dagli sfollati sono di proprietà della Chiesa. Ora, con il sostegno della Santa Sede, stiamo aiutando molte famiglie a riavere un’abitazione. Senza casa non è possibile pensare all’avvenire, riprendere una vita normale, educare i propri figli. È tempo che le persone possano riavere un tetto, ritrovare la loro dignità, occuparsi come si deve dei loro bambini. Molte famiglie che erano sfollate negli spazi del seminario maggiore stanno ritornando nei quartieri, grazie anche all’aiuto dell’ospedale Bambin Gesù che ha messo a disposizione dei fondi. Questo sta aiutando molti a riprendere una vita normale e in autonomia. Quando uno è costretto a mendicare, ad aspettare che gli si dia da mangiare, da vestirsi, tutto… non potrà mai sentirsi veramente libero. Oggi molti possono finalmente riprendere in mano le loro vite. Ed è un segno importante per il futuro del Paese».